LETTURE DEL BLOG N. 120.882 AL 24 GENNAIO 2024

INTRECCI AGIOGRAFICI: EREMITI ED ALTRI


Prof. Concetto Del Popolo


Dipartimento di
Filologia,
Linguistica e
Tradizione classica

Università di Torino



Nella ricorrenza del settimo centenario dalla nascita di Corrado da Piacenza, che ha fatto svolgere nella cittadina di Noto un convegno su Corrado Confalonieri, la figura storica, l’immagine e il culto,54 la Vita beati Corradi e` stata piu` volte pubblicata, con vantaggi per la lettura sempre piu` precisa del codice; si e` anche tentato di fare affiorare l’autore, che, sfatata la leggenda di Eugenio Guidi, resta anonimo,55 e, per ripetere le parole di F. Rotolo, «non ha una cultura specifica, ne´ teologica,ne´ biblica».56

A me sembra che forse si sia insistito tanto sulla sua rozzezza, e a torto. Si e` voluto, cioe` , che l’autore fosse ignorante e rozzo di stile, per giustificare contorsioni

sintattiche, che non si confanno al nostro gusto. Ad esempio, iCurti,57 con semplificazione estrema, aveva escluso ogni conoscenza biblica del nostro anonimo, mentre il Rotolo, con piu` accurata analisi, costruisce una pagina di citazioni dirette ed

indirette, che ne riscattano la presunta ignoranza biblica. Uno scavo piu` approfondito,operato da G. Cracco, dimostra che allo scrittore erano noti i Dialogi di Gregorio Magno, per alcuni episodi, che diventano modello per la narrazione della Vita di Corrado, ed aggiunge l’aura dei Fioretti;58 nell’insieme lo studioso sente lo spirito dei padri del deserto, la vita dei quali era nota e diffusa fra gli ecclesiastici, e, con i volgarizzamenti, fra i secolari. Anzi, alla prima lettura, si potrebbe dare un giudizio ‘ad orecchio’, dicendo che i singoli episodi sono come quelli dei Fioretti, ricchi di

candore e semplicita` , senza alcuna connessione temporale o logica, se non in rari casi. Anche un elemento minimo puo` offrire occasione di ‘riscatto’ e rivalutazione dell’anonimo: nel Prologo si legge «Incipit vita beati Corradi [...] quistu homu beatu Corradu»: il nome del beato congiunge i due estremi. Il titolo sacro sparisce subito nel cap. I: declarata la patria («Lu beatu Corradu fu di Lumbardia»), ci si sposta nella storia del passato dell’uomo, che diventa misseri Corradu, o misseri Corrau. Il titolo ‘umano’, che ne indica la condizione di nobilta`, e` ripetuto sempre, fin quando Corrado resta nel secolo; poi, dopo che e` ricevuto fra i servituri di Deu, si muta in frati Corradu, che, nel corso dell’opera, si alterna con beatu Corradu. Quando invece a lui si rivolgono i devoti, lo chiamano sempre: patri. La costanza pare frutto di chi sapeva come utilizzare i titoli secolari e religiosi.

Il testo, pertanto, si e` prestato a continui svelamenti, quasi un oggetto celato da una stratigrafia, che abbisogna paziente lavoro di scrostamento per rivelare a pieno la scarna essenza.

Una ulteriore lettura porge altri elementi per dimostrare qualche ‘fonte’ che ha contribuito alla costruzione del testo, che percio` non si puo` guardare come un ingenuo e spontaneo manufatto, perche´ invece e` frutto di compilazione, secondo i modelli agiografici piu` noti e nobili per tradizione; l’autore, pertanto, non era un semplice orecchiante di argomenti sacri ed era conoscitore anche della retorica e, direi, buon narratore e vivace.

Per la vivacita` , rimando a tutti i dialoghi del testo, compresi quelli in cui la sintassi e` in continuo fermento, passando indifferentemente dal discorso diretto all’indiretto, usando l’anacoluto che fa risaltare non il soggetto grammaticale ma quello logico, rimarcando con le ripetizioni alcune espressioni, e cosı` via.

Per l’aspetto narrativo riporto un esempio. Quando il vescovo di Siracusa va a trovare il frate, avendone sentito la fama, egli con il seguito entra nella cella di Corrado,

dove un conciso elenco ci indirizza alla conclusione: «non chi59 trovaru lectu, ne´ pani, ecceptu unu cucuzuni» (rr. 358-359). Non e` gratuita l’ispezione, perche´ ,

quando siederanno a tavola con il cibo portato dal vescovo, Corrado dice: «Aspectati, quantu vayu perfina a la chella» (r. 367): da lı` reca quattro pani caldi, che offre

agli ospiti. La sorpresa, essendoci stato prima un controllo, diventa miracolo, tanto che il vescovo se ne torna consolato e piu` convinto della santita` del frate.

La Vita, unico documento antico che attesti esistenza e virtu` di Corrado, non offre motivi per metterne in discussione l’aspetto storico in generale e religioso in

particolare. Il testo che abbiamo oggi, che il Rotolo con datazione paleografica assegna «alla prima meta` del sec. XV»,60 e` certo copia, quasi sicuramente di un’opera scritta prima, pure se non sappiamo quando; e la datazione del Rotolo e` doppiamente meritoria, perche´ da un lato allontana fisicamente il manufatto dal 1351, anno della morte del santo e che si legge nell’ultima carta del ms., e dall’altro giustifica

i tanti errori materiali, da considerare visibilmente errori di copista e non d’autore.61 Non pare inoltre ci siano elementi interni o esterni per potere fissare

con sicurezza i limiti cronologici dell’opera. Due questioni ancora: non sappiamo se il testo che leggiamo sia per la lingua ‘originale’, cioe` scritto in siciliano, oppure in latino e poi volgarizzato, come era abbastanza in uso.62 Mi pare evidente che la riscrittura o la copiatura non sia stata neutra; si legga: «... lu beatu Corradu, calandu per lu limitu di la timpa, zoe` per lu taglu di la timpa, planamenti calava» (rr.218-220): la spiegazione introdotta da cioe` sembra una glossa; ed anche in tanti

altri caso sorge questo sospetto.

Dicevo di fonti. Un episodio in particolare, quello della tentazione sulla carne, espressione oggi ambigua, che nel nostro testo vale ‘volere mangiare carne’; la lussuria

non e` , come ha gia` detto Cracco, la tentazione per eccellenza per questo santo, che, pur seguendo Benedetto (ed aggiungo Francesco del roseto di S. Maria degli

Angeli), si getta fra le ortiche e i rovi non per domare il corpo, ma per superare la tentazione del cibo, nel caso specifico una ghiottoneria, trattandosi di fichi primaticci.

63 L’archetipo sembra quello della nuova nascita: nato fra le spine come una rosa, secondo un topos comune all’agiografia, partendo da Ilarione;64 se da Benedetto

a Francesco continua il discorso sulla lussuria, per cui il corpo subisce volontario martirio, per Corrado non e` piu` certamen castitatis, ma assume i contorni di

una battaglia nuova, quella del cibo; cosı` come simbolico e` il fiasco di vino, dal quale, se rubato, sbuca il serpente:65 la tentazione del vino, come elemento che ubriaca e causa peccati, viene condannata nella sua origine (il furto; rr. 164-181); ma la vite, da cui nasce il vino che laetificat cor hominis ed e` conditio sine qua non per la celebrazione

eucaristica, sara` piantata dal beato nel suo primo e nel suo secondo orto.66

La ‘tentazione carnale’, cioe` la lussuria, nella Vita, la` dove comincia ha la sua fine, in un accenno velocissimo, proprio nell’episodio che si analizzera` .

Il cibo e` , dunque, la fortissima tentazione del servo di Dio, poiche´ il «formagi russu» (rr. 260-278),67 la «bona gallina grassa» (rr.279-305), la cassata 68 di

fave e farina d’orzo69 che fara` andare a male (rr. 305-316), i fichi primaticci che desidera (rr.317-329; proprio questa tentazione viene superata fra le spine), ne segnano l’itinerario spirituale; e ci saranno i miracoli, nei quali il cibo e` protagonista.

Anzi, la prima cosa che il santo eremita, giunto nel luogo che gli e` donato, fa, e` : «plantau dimulti arbori et viti» (rr. 91-92); 70 poi se ne allontana per l’accorrere di fedeli, e va «fora di la terra di Nothu et andau a lu desertu» 71 (rr.

106-107), dove c’era una cava, e lı` costruisce il suo locus amoenus, perche´ «incomenzau [...] ad hedificari unu jardinu 72 multu bellu et illocu plantau arangi et

multi pedi di nuchi et di pira et multi lignagi di specii di viti» (rr. 113-115); e, da buon coltivatore, in quelle terre assolate quel giardino «cum l’acqua lu abivirava

graciusamenti» (r. 116): nell’avverbio, inteso in modo etimologico, sta la pienezza della santita` . Un giardino cosı` particolare, per un eremita, sembra

per lo meno strano, come se il santo volesse procurarsi un luogo di delizie, senza la solita palma e l’acqua rinvenute in modo provvidenziale da Paolo primo eremita 73 e da altri poi,74 ma perennemente verde per gli aranci e multu bellu, per viti, peri, noci in abbondanza. Probabilmente ci saranno tanti modelli, per spiegare

questa particolare condizione; io penso ad Ilarione,75 che, quando va a visitare l’habitaculum di Antonio, fa una specie di peregrinatio ad loca sancta, poiche´ i monaci gli indicano: «Hic [...] psallere, hic orare, hic operari, hic fessus residere solitus erat; has vites, has

arbusculas ille plantavit» [...] Postquam autem ad hortulum venerant: «Videtis», dixit Isaac,

«hoc pomarium arbusculis consitum et oleribus virens?».76

Presa questa direzione verso Ilarione, credo che sia opportuno soffermarsi almeno su un particolare. Corrado,

[...] per meglu serviri a Deu, sindi vinni in Sichilia. Et, vinendu in Sichilia, illu adimandau

undi fussiru li meglu agenti di Sichilia. Et li sichiliani chi dissiru ki a lu Val di Nothu77 sunu li meglu agenti di Sichilia (rr. 63-65).

E’ automatico pensare che la risposta sia frutto di campanilismo dell’agiografo, che in un certo senso offende gli altri siciliani, che, ‘giudici morali imparziali’, pronunciano la lode per la zona di Noto! Si osservi, inoltre, che il beato, seguendo il suggerimento, si era prima fermato «a li casi di Palaczolu», anche queste in Val di

Noto; e «quisti di Palaczolu mali volintieri lu arricolsiru et prisiru a dı`richi multi jniuri et villanii et multi laydi palori, et scummisirusi di farili mali. Et frati Corradu,

videndu ki illi chi vulianu fari mali, si partiu currendu; et illi, videndu ki cussı` si partiu, chi misiru li cani appressu» (rr. 67-72).78 Due osservazioni: il fatto che il santo chieda dove si trovi la migliore gente, per la singolarita` della richiesta, lascia perplesso il lettore; e poi, proprio dove si dovrebbero trovare i migliori, addirittura

gli sono aizzati i cani contro, tanto che il frate, partendosi in fretta, giunge a Noto.

La scelta appare immotivata per Corrado, che proviene dalla penisola italica e va a finire nella parte meridionale dell’isola. Soccorre pero` Ilarione, il quale, per sfuggire la fama, «ascendit classem, quae Siciliam navigabat» (25.1), e poi si interna «vicesimo

a mari miliario» (25.8), anzi, per essere piu` precisi, nelle vicinanze di Pachino, dove sara` raggiunto dal giovane indemoniato, che prostrandoglisi davanti e` subito

guarito (26.1-4). Il luogo di Ilarione, partito dalla Libia, non e` scelto, essendo il quasi naturale approdo;79 egli poi si interna per una trentina di chilometri, cioe`

la distanza che c’e` tra Noto e Portopalo, dove si trova ancora oggi un porticciolo.

Ando` poi Ilarione verso il netino? Qui non importa, ma sembra che la giustificazione della scelta della ‘migliore gente di Sicilia’ derivi da questo dato agiografico, poiche´ proprio in quei luoghi gia` c’era stato un eremita, e quale eremita!

Tornando a Corrado, per lui il cibo era poco pane, quasi niente, ma legumi che gli venivano regalati (rr. 116-124; 200-230); talvolta mangiava pane, e beveva acqua e raramente vino, ma durante le quaresime solo «favi et chichiri et lintichi et altri ligumi» e non beveva vino (rr. 565-579). Scorrendo i vari episodi che compongono la Vita, sembra di avere un denominatore comune: pane per i poveri, durante

la carestia; pane miracoloso fresco per il vescovo che va a trovarlo (rr. 354-374); 80 i pesci, a mangiare i quali era stato invitato, sono divorati dal gatto (rr.375-387); la miracolosa sostituzione della carne di maiale con pesce, per l’inganno

che gli volevano fare (rr. 388- 413); 81 ancora pane che scende dal cielo, che Corrado offre ai giovani che lo avevano bastonato, non solo perdonandoli con la frase

evangelica di Lc 23, 24, ma addirittura difendendoli davanti al giudice, con una vera restrictio mentalis (rr. 428-460): 82

... dissi la iusticia: «Di’ veritati 83 si su quisti quilli». Et illu dissi ki «non mi parenu illi». Et dissi veritati lu beatu Corradu: «Ki quando mi bacteru eranu armati et jrati, et ora eranu actaccati et trimavanu di pagura»; 84

e pane caldo, sempre miracoloso, e` dato dal santo ai giovani che lo avevano aiutato a rimuovere un masso enorme dalla sua grotta (rr. 485-511);85 infine il pane, sempre

celestiali, ‘moltiplicato’ per dare aiuto a uomini e donne e bambini durante la carestia a Noto (rr. 556-564). Persino il paragone dell’ernia del bambino, che lui

guarisce nel primo miracolo, e` fatto col pane («li testiculi multi grossi, cussı` comu pani», r. 135).86

La fonte dell’episodio della carne, se di fonte – pur con tutte le limitazioni di cui si e` detto – posso parlare, ha stretto legame con quello che dovrebbe essere

l’ambiente francescano, anzi spirituale: si tratta della vita di Iacopone, che a noi e` giunta in testi materialmente quattrocenteschi, contemporanei percio` a manoscritto della Vita.

Trascrivo, mettendo in evidenza col corsivo alcuni particolari, dalla Vita del beato Jacopone da Todi edita dal Tobler: 87 Et esen una volta tentato questu homo de Dio, fervente francischino, fra Jacopone,

de mangnare d’una coratella, et questu, como vero conbattetore contra li vizii, volse tenere

la via de mezo, cioe` de contentare el corpo e l’anema.

E tanto fece che procura una coratella, la quale, como l’ebe, l’apico` ne la cella dove lui

dormiva.

Et la matina, quando era l’ora del mangnare, et llui andava et resguardava quella coratella

e tocavala on poco colla facia e poi tirava via et, secondo la usanza, l’altro dı` faciva el simele. Et tanto stete cussı` quella coratella, che envermı`et puzava ssı`forte che se sentiva per tuto el dormetorio. Et fra Jacopone onne dı` la visitava e tocavala col volto, con molto piacere, per confondere el vitio de la gola.

Il racconto continua con la crescita a dismisura dell’orribile fetore, tanto che i frati, non potendolo sopportare, quando scoprono nella cella la «coratella tutta marzia piena de vermi tanto fetente che per veruno modo lo’ bastava l’animo

ad acostarse ad esa, la quale fra Jacopone odorava per cosa molto odorifera», condannano

Iacopone a stare ne lo necessario; a lui, che lı` sopportando con pazienza e gioia compone O jubilo de core, appare Cristo che lo consola e fra i due si instaura

misticissimo dialogo: Iacopone vuole un ‘inferno peggiore di quello dove si trovava’, per purificarsi dei propri peccati.

Ecco cosa accadde a Corrado, che aveva liberato un ragazzo da un dirupo dove il diavolo lo aveva guidato: 88

Et videndu Sathana ki non pocti ingannari a lu beatu Corradu,89 sı` li apprisintau una grandi et suza cogitacioni di luxuria.

Et ancora non lu putendu diseperari, li fichi 90 viniri unu grandi disiyu di manja`ri 91 carni

di porcu di la longa.92 Et fachenu quista bactagla. Et lu beatu Corradu, volendu fari la bactagla cum quistu diavulu, dissi ad unu sou devotu, ki havia nomu notari Bartuchulu Longu;93 dissi lu beatu Corradu: «Eu ti pregu ki mi

faczi unu serviciu, si a vui plachi».94 Et illu li dissi: «Vulinteri 95 lu farria».

Dissi lu beatu Corradu: 96 «Portami di la carni di lu porcu, zoe` di la longa, ki a mi havi

factu multu disiyu».

Et quistu homu vulinteri li portau la carni di lu porcu. Et quando lu beatu Corradu a`ppi quista carni, et 97 illu li appisi ad unu croccu, ki era menczu la gructa. Et standu lu beatu Corradu, li dichia la Cogitacioni: «Ma`nia di la carni,

ora ki esti vinuta»; et illu rispundia: «May no ’ndi mangiray, corpu». E tornava la Cogitacioni, dichia: «Ma`nia, confo` rtati di lu chivu corporali, ki Christu dissi a lu Evangelu ki non auchidi 98 l’anima zo` ki trasi a lu corpu, ma zo` ki indi nexi». Et lu beatu Corradu rispundia:

«Cussı` comu Christu dissi di l’anima, cussı` dissi di lu corpu, ki lu corpu, mania`ndu la carni,

fa li opiri di la carni. Megliu esti adstiniriti, ki troppu manja` ri senza misura; et cussı` comu lu pixi esti piglatu per la bucca et a la gula, cussı` putissi tu a mi piglari per toy falczi sermuni.

Ma eu farro` mia vita ordinata,99 non manca chi exa di mi vita dedicata».

Et poy lu beatu Corradu, fachendu penitencia ordinata per certi jorni, et andau a vidiri quista carni, kı`moria di lu grandi disiyu. Et alzandu li ochi, lu beatu homu vidi ki li vermi

l’avenu cavata, et dixı`si quista carni, et misila fora di la chella, ki tutta era plina di vermi, et dissi: «O corpu, ma`nia la tua carni, et tu, vermi, ma`nia li toy vermi». Illu, videndu non putia sustiniri lu forti fituri ki xı`a di la carni, et disdignatu, si tirava arreri.

Et cussı` vinsi a sSathana per virtuti di Christu (rr. 231-259).

Tre sono i personaggi di questa plastica rappresentazione, che poggia tutta su congiunzioni copulative e verba dicendi: il devoto notaio donatore e` secondario, mentre primeggia il demonio/Cogitazione, che in realta` e` l’io del frate; dunque il dialogo

portante avviene tra il santo e il proprio io, Cogitacioni, come nel brano del De vitis Patrum Liber III sopra ricordato.100 La tentazione diabolica e` sottile e suggerisce,

Vangelo allamano e addirittura nominando Cristo, che la carne si puo` mangiare, perche´ «non coinquinat hominem». La risposta, con la citazione dell’Apostolo (qui assegnata a Cristo stesso),101 e la mortificazione continua rendono vittorioso il frate.

L’esempio del pesce preso all’amo, che gli causa lamorte, e` derivato, secondo Rotolo, dalla Bibbia;102 invero, il contesto e' completamente differente, poiche´ lı` si dice: «Nescit homo finem suum, sed sicut pisces capiuntur hamo et sicut aves conprehenduntur laqueo, sic capiuntur homines tempore malo cum eius exemplo supervenerit». La metafora ha quel valore morale, come si trova in Iacopone: «pero` e` ’nfoll’estato / chi en tal penser s’ennama» (Vorria trovar chi ama, vv. 17-18).103

Il grandi disiyu, che fa da cornice alla narrazione, si appaga con la semplice vista.

Qualche differenza col testo iacoponico c’e` , soprattutto nell’insistenza del primo con il fetore, che a lui sembrava «cosa odorifera», mentre Corrado, «disdignatu, si tirava arreri». Cristo invece non disdegna di apparire al mistico «en quello luogo»; e Iacopone ne uscira` che «sempre pariva ebrio de dolceza». L’eremita, con argomentazione scritturale, che controbatte quella diabolica, e con l’aiuto del

marciume, supera la tentazione di gola. L’ossatura, asciutta e scarna nel primo, ricca di particolari e drammatizzata nel secondo, e popolare nel tono, li accomuna.

Non pago del primo racconto, il narratore aggiunge due variationes: la «bona 104 gallina grassa» (rr. 279 ss.), e «la cassata di fave e farina d’orzo» (rr. 305 ss.):

Et Sathana tornau a ffari bactaglia cum lu beatu Corradu et portauli una grandi cogitacioni di mania` ri una bona gallina grassa, la quali li sapissi bona. Et vinendu spissu quistu pensamentu, ki non putia suffiriri,105 et eccu unu iornu vinni unu bonu homu a lu beatu Corradu et salutaulu, et lu beatu Corradu li accumenza a rraxunari, et dissi, intra li palori, lu beatu Corradu: «O frati, eu haiu grandi desideriu di mania` ri una gallinella, ki sia grassa, si a vui fussi in plachiri, ki ’ndi mandassi una bona».106

Et lu bonu homu li dissi: «Volinteri, patri, et di la bona voglia».

Et partutu, lu bonu homu prisi di li soy gallini una bona grassa et portaula a lu beatu Corradu. Quandu lu beatu Corradu lu victi, li dissi: «Ben sigi vinutu, frati. Ha`y portatu la caritati?».107

Et richiputu108 lu beatu Corradu la gallina, illu la liga per a li pedi et misila supra lu anchinu di la gructa et poy accumenza a ffari penitencia. Et videndu la gallina, lu demoniu

accumenza a ssermunizari109 a lu beatu Corradu et dichi: «O poviru vechu, ma`nia la gallina!

Non si perda la caritati di Jhesu Christu, ki dissi a lu Evangeliu di li dui pixi: ki, quandu ruppi lu pani, dissi a li apostuli ki cuglissiru li minuzagli. Et cussı` farray tu, ki mangiray la gallina, ki non si perda la caritati».110

Rispusi lu beatu Corradu: «Eu may non la mangiro` , ki Paulu apostulu dissi ki la carni fa carni, et eu, mania`ndu carni, purria fari carni et tu ti ’ndi farrissi beffa; sı` ki lu meu corpu may non lu liviro` di lu sou usu, oy ordinata vita».111

Et facta quista bactagla per certi jorni, et lu beatu Corradu andau a la gallina, ki era tutta plina di vermi, ki, comu la toccava, si lassava cadiri cum tutti li pinni di li vermi miscati; 112 et dichia: «Ma`nia, o corpu affamatu!». Et lu corpu, videndu quistu, non a`ppi plui disiyu. Cussı` Sathana muria di doluri et pensava si putissi ingannari per altru modu (rr. 279-

305). Il diavolo, stavolta in prima persona, more biblico, come con Giobbe o con Cristo, e con l’aria compassionevole nel vocativo iniziale, dimostra l’assurdo agire

del santo; lu Evangeliu di li dui pixi e` quello della IV domenica di Quaresima: il beato lo avra` sentito in chiesa, e, come lui, l’agiografo e... il diavolo, che qui ne fa

buon uso; ma il santo, Paolo alla mano, vince di nuovo la battaglia. Se nel racconto della carne, Corrado moria di lu grandi disiyu, qui, il corpo (quasi scisso dallo spirito) non a`ppi plui disiyu; e se lı` il santo cussı`vinsi a sSathana per virtuti di Christu, qui cussı` Sathana muria di doluri: l’intreccio fra i due episodi continua.

Il terzo racconto e` quello della cassata, che segu immediatamente, ma la tentazione e` molto piu` sottile, perche´ mentre nei primi due casi si tratta di carne, qui

gli ingredienti sono le fave e un po’ di farina d’orzo, impastati con acqua e cotti al sole. La tentazione e` di gola, ma c’e` anche un quid legato agli ingredienti: l’orzo e`

un lusso, come aveva detto Ilarione al proprio corpo: «[...] aselle, faciam ut non calcitres, nec te hordeo alam sed paleis, fame te conficiam et siti, gravi onerabo

pondere, per aestus indagabo et frigora, ut cibum potius quam lasciviam cogites »; 113 proprio questo accenno alla lussuria e al cibo potrebbe essere il nodo

fra Corrado e Ilarione; anzi, la reticenza dell’agiografo nella prima frase, totalmente avulsa dal contesto e senza alcuno sviluppo narrativo, troverebbe una causa giustificante in un’altra tentazione di lussuria.

Et mandauli un’altra temptacioni cum li soy compagnuni, et non lu pottiru temptari.114 Et videndu Sathana ki non lu putenu arrumpiri, li mandau una temptacioni di mania`ri una cassata. Et havendu sı` forti voluntati di mania` ri kista cassata, dissi ad unu sou amicu:

«O frati, vo`ymi portari unu pocu di favi et una115 pocu di farina di oriu?» Et illu dissi: «Bellu amicu116 meu, volinteri lu farria».

Et quistu amicu li portau li favi et la farina di lu oriu. Et lu beatu Corradu prisi kista farina et inpastaula cum acqua frida et fichi la cassata et, mundati li favi, l’amiscau, et poy la cassata la misi a lu caluri di lu suli.117 Et quandu fu cocta, et lu beatu Corradu la prisi et ruppila, et illa fitia forti, et disdignatu lu corpu, non vulendu plui nenti di quilli chivi. Et Sathana, videndu ki non lu pocti may moviri, havia ’ndi grandi pena (rr. 305-316).

Lo schema si mantiene identico; qui il santo non ha piu` solo desiderio e cogitazione, ma forti voluntati; il racconto si conclude velocissimo: preparazione della torta e suo abbandono immediato; e Sathana [...] havia’ndi grandi pena.

Un altro aspetto unisce san Corrado a quei frati che con brevi detti e ammonizioni consolavano i devoti: esempio e` la sua risposta, quando, cosı` come i discepoli

avevano chiesto a Cristo di insegnare loro a pregare, «unu bonu homu lavuraturi vitranu» (rr414-427),118 che gli era devoto, fece con il beato. Il capitoletto

si deve dividere in due parti; nella prima si risente, pur con tutte le mutazioni necessarie, quel racconto dello Speculum perfectionis (cap. 25),119 quando Francesco abbraccia e bacia la spalla del frate che tornava alla Porziuncola cantando lodi a Dio, dopo avere fatto la questua. Nella seconda parte, invece, si va dritto al Vangelo, almeno per la richiesta: «lu bonu homu dissi: ‘Conpari, inbizami alcuna oracioni’», che traduce chiaramente: «Domine, doce nos orare» (Lc 11, 1). E, secondo lo spirito evangelico, «lu beatu Corradu dissi: ‘Di’ cussı`’»; segue poi una brevissima preghiera, che credo vada trascritta in forma di versi:

In cori di homu intray,

a la virgini Maria salutay;

lu meu pectu lu contay a iacunu et a presti et a Jhesu Christu, – ki sa quandu fu et esti. 5

Et quista oracioni

tu dirray – per la tua devocioni.

Solo cinque versi per la preghiera e due per la conclusione, che ingloba la raccomandazione all’amico e devoto. I versi, che si impongono nonostante le prime tre rime facili e verbali, non hanno pretesa di alta letteratura; in essi manca ogni

regola sillabica, pur se il metro settenario (con qualche escrescenza) sembra sottostare,

con due endecasillabi in chiusa, nei quali ritorna la rima verbale ed una ‘rima in lontananza’, come rima interna. Nella risposta di Corrado, pero` , non c’e` una preghiera, come ci attenderemmo dal modello: «Cum oratis, dicite: Pater, etc.»

(Lc 11, 2). Piu` che di una preghiera, dunque, sembra trattarsi di una specie di formula

(non saprei dire se breve religioso o breve magico, che nella cultura popolare spesso coincidono),120 di cui mi sfugge il significato: ‘Sono entrato nel cuore dell’uomo [chi parla?], ho salutato la vergine Maria. Il mio petto 121 l’ho aperto al diacono ed al prete ed a Gesu` Cristo, che conosce quando fu ed e` [che cosa?]’.

L’ermeticita` risalta anche al v. 5, per quandu: si riferisce a qualcosa che l’amico aveva fatto e raccontato, aprendo il cuore, in scala ascensionale, al diacono, al prete, a Cristo onnisciente? 122 Pero` si tenga presente che proprio fra queste parole ci sono segni di abrasione.123 Per questi pochi versicoli si puo` di nuovo pensare all’ambiente spirituale, anzi a quello iacoponico, al quale gia` altri indizi ci hanno mandato. Ne´ si dimentichi che Tommaso da Celano scrive un capitoletto Quomodo

beatus Franciscus docuit fratres orare (Vita prima, cap. XVII).124

Si aggiunga, se non prendo abbagli, che questo e` l’unico caso in cui traspare la devozione mariana del santo. La ‘cristologia’, invece, si dimostra, oltre che in questa

preghiera e nell’esplicito richiamo al Vangelo, nel saluto: «La pachi di Jhesu Christu ti dia» (r. 418; forse c’e` anacoluto), «La pachi di Christu sia cum vui» (r. 489); ed ancora nel pane che dava a tutti, facendo «la caritati di Jhesu Christu

cum amuri» (rr. 563-564); nella devozione dei suoi digiuni (rr. 571-572); nella potenza che riconosce a Cristo la vittoria contro le tentazioni (r. 259); rimane inoltre

costante la continua preghiera, anche di lode (r. 162), quasi un sottofondo alla narrazione.

Si noti pure l’altro saluto: «Frati, ruma` niti in pachi» (r. 148), quasi il Pax vobis liturgico ed evangelico, oltre che del Testamento di san Francesco.125 Non si legge, invece, alcun accenno di devozione particolare ai santi, neppure a Francesco d’Assisi; e questo lascia sorpresi, poiche´ Corrado e` considerato francescano.

Qualche osservazione ancora. Muovo dalla frase della prima nota di Rotolo:

«La forma letteraria del prologo ripropone vecchi schemi agiografici e percio` non ha valore oggettivo»; 126 anzi, proprio nel prologo si ha l’accenno di testimonianza

diretta, a cui siamo abituati e se ne e` sopra accennata la validita` sacrale, perche´ ormai formulare: «eu audivi [...] eu vidi». Meraviglia pero` , dopo il discorso che lo studioso fa sulla popolarita` della nascita dell’opera, il fatto che scriva: «Giustamente

l’autore non l’ha chiamata ‘Leggenda’ [...] ma a ragione veduta l’ha chiamata Vita».127 Sembrano validi i motivi dello studioso, ma cadono in contraddizione se pensiamo che Tommaso da Celano scrisse le Vitae di Francesco e una Legenda ad usum chori, mentre le altre Legendae le fara` Bonaventura; e il Cavalca non volgarizzo` le Vite dei santi Padri?128 e fra quelle dei santi padri, non c’e` la Vita Antonii? I problemi storici accennati per Corrado sono identici a quelli di tutta l’agiografia.

La vita di Corrado ha uno svolgimento regolare e direi cronologico, con l’avvertenza

di non prestare rigido valore alla parola nel susseguirsi di tutti i fatti. Dopo il prologo che attesta la veridicita` della narrazione, segue lo schema canonico delle vite dei santi: luogo di nascita senza indicazione temporale; condizione sociale elevata e vita spensierata nel secolo, quasi conditio sine qua non per la santificazione; bonta` di animo di misseri Corradu e nobilta` della sua azione nel proclamarsi

colpevole; spoliazione coatta delle cose del mondo e conversione, perche´ va a serviri Deu in una comunita` , dove apprende dottrina e riceve abito religioso e peregrinazione a Roma129 e viaggio in Sicilia, allontanandosi cosı` dalla propria terra; 130

scelta di Noto e di un primo romitorio, in un luogo datogli da un amico, dove, fra le fatiche, cresce in virtu` , tanto che troppa gente va a visitarlo; si parte, percio` , e va

«illa` undi Deu ordinera`»: la volonta` di Dio e` quella che prevale. La sua vita diventa

ancora piu` aspra e dura, la fama si espande, poiche´ i fedeli ne raccontavano i miracoli; 131 lui riceve tutti benevolmente, consolandoli e talora operando altri prodigi.

La vita pero` non si svolge sempre nell’eremo, nella grotta scelta, poiche´ ogni tanto, come gli antichi padri del deserto, si reca in citta` . Proprio a Noto avviene il primo miracolo, operato col segno della croce e con l’imposizione delle mani e poi sfugge al ringraziamento degli uomini, nascondendo il volto, e torna nella spelonca, a lodare Dio e a «ffari soy lavuri humilimenti»: anche qui la virtu` e` affidata ad

un avverbio. Poi si succedono tre miracoli: quello dei fiaschi di vino (san Benedetto dei Dialoghi, dice Cracco, ne e` il padre); 132 quello del devoto salvato dal thronu

(‘tuono’); quello del ragazzo, liberato dal dirupo dove Satana lo aveva condotto con inganno; gli episodi si chiudono con preghiere, benedizioni, buon raccomandazioni.

Dopo i miracoli, le tentazioni: come gia` detto, quella di lussuria e` vinta e domata immediatamente, ma seguono poi quelle riguardanti il cibo. La vita di carita`, preghiera e penitenza e` confermata dai miracoli e dal fatto che a lui accorrano non solo i fedeli, ma anche il clero, come il vescovo di Siracusa, che ne loda la santita` ; e

Corrado, secondo la piu` retta tradizione, attribuisce a Dio il prodigio di cui il prelato e` testimone. E poi miracoli ancora, con momenti di apostolato, con azioni e parole, e visioni non a sua consolazione, ma per aiutare gli altri.133 E, a salvaguardia

dell’ortodossia di questo eremita giunto da lontano, c’e sottomissione e obbedienza alla Chiesa, confessione eccezionale (o ‘confessione generale’?) con il vescovo di Siracusa,134 confessione e comunione, multi fiati, con un prete di Noto, come deve fare il buon cristiano. Discepoli, miracoli, rivelazione della prossima morte, come Paolo primo eremita con Antonio, o come Antonio direttamente, dando disposizioni per la propria sepoltura.135 L’ora della morte ricalca quella di Paolo: Antonio, «entrando nella spelonca, trovo` quel santissimo corpo istare gi-

nocchione colle mani giunte e cogli occhi verso il cielo, e pareva che orasse»; 136 e cosı` Corrado:

Et vinutu lu tempu et lu jornu ki lu beatu Corradu divia trapassari, et illu andau a la sua chella et misisi, comu solia stari, in oracioni et incomenza a ffari oracioni a Deu humilimenti in ginuchuni et alzau lu capu a Deu... (rr. 595-598).

Finita la preghiera, muore e subito le campane suonano miracolosamente, come

avviene nel transito di tantissimi santi, e si avvera per il funerale quanto predetto da Corrado. La data della morte, che chiude il libro, segna l’inizio della vera vita, il dies natalis, anche se manca l’indicazione del giorno; i miracoli sovrabbondanti

(«chi eu non ti purria contari», secondo l’agiografo), seguono il tipo di enumerazione evangelica: nella chiesa madre di Noto, il cadavere del santo «sanava

chunki, zoppi et orbi et muti et diversi infirmitati» (r. 656); ai discepoli di Giovanni Cristo disse: «Euntes, nuntiate Iohanni quae vidistis et audistis: quia caeci vident, claudi ambulant, leprosi mundantur, surdi audiunt, mortui resurgunt, pauperes

evangelizantur» (Lc 7, 22): 137 l’imitatio Christi e` completa.

Dall’insieme, risulta rivalutata non tanto la figura del santo, che domina in tutte le pagine della Vita, ma l’anonimo agiografo, che acquista qualche merito come

narratore.


Rivista di Storia e Letteratura Religiosa, 2007, pp. 123-153.





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