l'acuto commento per la penna netina
di Mons. Salvatore Guastella
alla ritrovata poesia del 1862
La valle di San Corrado a Noto
da “Poesie di Giannina Milli, volume primo, pp. 74 - 78”
Ed. Felice Le Monnier, Firenze 1862
Questi versi del poemetto “Corrado Confalonieri l’Eremita dei Pizzoni”, cantati dalla melodiosa corale netina Trio Jubal mi sembra riascoltarli nell’alata lirica di Giannina Milli, poetessa abruzzese, la quale – ospite attesa e gradita anche nei salotti letterari di Sicilia – giunta a Noto nel dicembre del 1853, volle pellegrinare alla vicina Valle di San Corrado (detta Valle dei miracoli) dov’è il santuario con la venerata grotta del Santo, cuore della religiosità netina e sacra a tutti noi per la presenza orante del patrono S. Corrado Confalonieri(+ 19.2.1351); da secoli è luogo rispettato e custodito dagli ‘eremiti di S. Corrado’ e meta di pellegrinaggi e di visitatori. Oggi ne hanno zelante cura i Frati Francescani Conventuali.
Anche a nome dei devoti del nostro Santo, sono grato all’amico piacentino Umberto Battini, zelante gestore del presente sito web, per aver rintracciato la splendida, melodiosa Ode “La valle di S. Corrado a Noto”, nel 1° dei due volumi di Poesie della versatile poetessa abruzzese.
Giannina Milli (Teramo, 24.5.1825 – Firenze, 8.10.1888) è stata scrittrice, poetessa estemporanea ed educatrice. Le sue serate, durante le quali declamava versi composti all’istante su temi proposti dal pubblico presente in sala, avevano soprattutto lo scopo di accendere gli animi a sentimenti patriottici e religiosi.
Affascinata dal misticismo di questa Valle di San Corrado, la celebre poetessa teramana volle esprime in versi (sono ben tredici strofe) la sua emozione-ispirazione di credente: «rievocare io tento / quella che in te provai calma divina».
Anche noi – ancora una volta e idealmente con la stessa poetessa – rileggiamo nei suoi versi l’incanto della sacra valle netina. Segnalo, tra parentesi, il n° della strofa che riporto.
«Veggio la grotta, ov’ebbe aspro ricetto / piacentino cavalier cortese… / che agli agi aviti, al maritale affetto, / al dolce nido nel natal paese, / disse perpetuo irrevocato addio, / tutto offerendo in olocausto a Dio» (3ª). Densa di agreste lirismo la 6ª strofe: «Or dell’aura il sospir, che dai roseti / soavemente move profumata, / l’eco mi sembra dei sospir segreti / di quella al ciel diletta alma bennata! / Odo fremer tutt’ora infra i mirteti / l’angelica melòde innamorata / che allietò spesso di celeste incanto / l’ora notturna al solitario Santo».
La poetessa rimase estasiata da tanto silenzio ascetico e, proseguendo, canta: «Oh, benedetti, oh avventurosi invero / voi, semplici romiti poverelli, / che a custodia del loco un mite impero / serba nel nome e nell’amor fratelli! / Non giuro irrevocabile severo / vi annoda qui, se il mondo ancor vi appelli. / Né tardo pentimento la secura / pace conturba delle vostre mura» (9ª).
Infine, come riavendosi da un estatico sogno, la poetessa volge un ultimo sguardo alla circostante mini-Tebaide netina: «Né tu sì vaga allora [al tempo di S. Corrado] eri e ridente / o quieta odorosa vallicella. /…Pur fin d’allora la Netina gente / qui trasse a schiere ad onorar la bella / alta virtù dell’umile Eremita / che illustrò il loco ove traea la vita» (12ª). «…
Davvero “la vera poesia è uno scoprire e stabilire richiami e concordanze tra il Cielo e la terra, in noi e tra noi” (Clemente Rebora).
E la poetessa Giannina Milli è stata esente da quella che Simon Weil ha chiamato “sola colpa: non aver la capacità di nutrirsi di luce”. Perciò, commossa ed edificata, così ella volge un ultimo saluto al sacro speco luminoso di santità, in quel dicembre del 1853: «La grotta, il loco ove [il Santo] la prece sciolse, / il rio che il dissetò per sì lunghi anni, / il sasso ch’ebbe al pio capo sostegno, / di riverenza popolar fur segno» (13ª).
LA VALLE DI SAN CORRADO IN NOTO.
di Giannina Milli
(Teramo 24 maggio 1825 - Firenze 8 ottobre 1888)
O tra scabri dirupi inabitati
Silenziosa vallicella oscura ,
Di amene ombre gioconda, e di odorati
Fior che benigna si larga natura ;
Salve ! in riva al Tirren, pe' frequentati
Trivi superbi di fastose mura ,
Tra 'l fragore de' cocchi e il popol denso ,
Al tuo cenobio, alla tua pace io penso !
E così forte rivocare io tento
Quella che in te provai calma divina ,
Che a poco a poco ciò che miro e sento
Si trasforma per l' alma peregrina.
Più il mar non veggo che amoroso e lento
Lambe il lito gentil di Mergellina,
Ma del picciolo tuo rivo argentato
Ascolto il mormorio sommesso e grato.
Veggio la grotta , ov’ebbe aspro ricetto
II piacentino cavalier cortese ,
A cui si fera di rimorsi in petto
Guerra l' error non volontario accese,
Che agli agi aviti, al maritale affetto,
Al dolce nido nel natal paese,
Disse perpetuo irrevocato addio,
Tutto offerendo in olocausto a Dio.
Qui scalzo e cinto di cilizio, i vani
Diporti e l' ora maledia fatale
Che, perseguendo per colline e piani
Errante belva a cui il timor da l'ale,
Di fitto bosco nei recessi arcani,
A caso, incendio suscitò ferale ,
Onde a torto accusato altri poi venne,
E a un passo fu dalla crudel bipenne.
Nè il duro esiglio , nè il solingo orrore
Del loco, e l' aspre penitenze e i pianti,
Credea pena adeguata al grave errore
Di che ognor si accusava al cielo innanti.
Rendean fede dell' alto suo dolore
Gli estenuati pallidi sembianti,
E il crine incolto, ed i dogliosi accenti,
Con che novi al Signor chiedea tormenti.
Or dell' aura il sospir , che dai roseti
Suavemente move profumata,
L' eco mi sembra dei sospir segreti
Di quella al ciel diletta alma bennata !
Odo fremer tutt' ora infra i mirteti
L' angelica melode innamorata
Che allietò spesso di celeste incanto
L'ora notturna al solitario Santo.—
Non ricca di scolpiti preziosi
Marmi, ma sorge la chiesetta umile
Modesta e bella, accanto a paurosi
Antri, di belve un di tetro covile.
Le mura ornan l' offerte de' pietosi,
E l'ara, in sua semplicità gentile,
Splende non già d'indiche gemme e d' ori
Ma di olezzanti ognor vergini fiori.
Nè mai sì dolce ricercommi il petto
Qual più suave udii musica nota,
Come l' alto silenzio benedetto
Che regna dentro la magion devota ,
Piove dal santo effigiato aspetto
Al cor commosso una dolcezza ignota ;
E voce ascolta in cara estasi assorto :
« Delle umane procelle è questo il porto. »
Oh benedetti, oh avventurosi invero
Voi, semplici romiti poverelli,
Che a custodia del loco un mite impero
Serba nel nome e nell' amor fratelli !
Non giuro irrevocabile severo
Vi annoda qui, se il mondo ancor vi appelli.
Nè tardo pentimento la secura
Pace conturba delle vostre mura.
A' scarsi desiderii, a' pochi vostri
Bisogni ardente carità provvede ;
E delle scienze , un di vive ne' chiostri,
Unica qui tien loco ingenua Fede.
Invidia e ambizion , feroci mostri,
Cercano indarno in mezzo a voi la sede,
Chè sol nel vostro cor iìda tenace
La speme alberga dell' eterna pace.
Con lieto volto il peregrin bramoso
Dall' Eremo alla valle accompagnate,
E dell' antico Santo glorioso
La leggenda, cortesi, gli narrate.—
Qui sul nudo torren cercò riposo ;
Qui fùr tante per lui notti vegliate ;
Qui mostra un sasso venerato agli occhi
L'orma tuttor de' suoi curvi ginocchi !
Nè tu sì vaga allora eri e ridente,
O quieta odorosa vallicella;
Ma di macigni e bronchi orrendamente
Irta , e ad ogni gentil germe rubella;
Pur fin d'allora la Netina gente
Qui trasse a schiere ad onorar la bella
Alta virtù dell' umile Eremita
Che illustrò il loco ove traea la vita.
E poi che al ciel la santa anima volse,
Dove il disio si acqueta, i bianchi vanni,
Ed un serto immortal di luce colse,
In premio ai lunghi sostenuti affanni ;
La grotta, il loco ove la prece sciolse,
rio che il dissetò per si lunghi anni,
II sasso eh' ebbe al pio capo sostegno,
Di riverenza popolar fur segno.
Nel Dicembre dell'anno 1853.