LETTURE DEL BLOG N. 120.882 AL 24 GENNAIO 2024
PIACENZA

Basilica Santuario Santa Maria di Campagna

Una grande tela
del pittore Giovanni Salino
con una rara iconografia
legata ai Terziari quali San Corrado

S. Francesco alla Verna che riceve
le stimmate
vestito dell'abito bigio del
Terzo Ordine Regolare


La bella tela di grandi dimensioni si conserva nel Convento dei Frati minori appresso alla Basilica Santuario.

Cattedrale di Piacenza

affreschi nelle volte della navata laterale sinistra entrando
dipinte dal pittore lodigiano Giovan Battista Galleani nel 1613


foto G. Battini - elaborazione grafica U. Battini
per l'Araldo di San Corrado

Scene della vita del Santo eremita

cliccate sulle immagini per ingrandirle


I devoti di NOTO e AVOLA si contendono
il corpo del Santo alla morte il 19 febbraio 1351



La processione degli abitanti di NOTO che portano
il corpo del Santo eremita in città




Miracolo dei pani con il Vescovo e confessore




San Corrado dona 'il pane degli angeli'
ai poveri


BREVE VITA DI SAN CORRADO CONFALONIERI TRATTA
DALLE FONTI STORICHE E DALLA TRADIZIONE ANTICA
Il giusto deve giudicare la sua vita in confronto con gli esempi dei
migliori, poiché gli esempi, quasi sempre, colpiscono più delle parole.
Cronaca francescana di Tommaso da Eccleston.
San Corrado della nobile Famiglia dei Confalonieri nasce nel 1290 a
Piacenza in Castrum Calendaschi, non molto lontano dalle rive del fiume Po.

Fin dalla giovinezza è addestrato agli usi ed ai costumi della cavalleria;
nelle campagne prossime alla città Corrado è solito andare a caccia.
Assiste anche allo sviluppo dell’Ordine francescano ed al gran numero di
laici che vi aderiscono: a Piacenza i Confalonieri sono stimati come
apertamente schierati con i guelfi, di salda fede papale.
Anche nel borgo di Calendasco, poco discosto dal suo maniero, vi è un
piccolo eremo-hospitio per pellegrini e poveri gestito da frati Penitenti
riconosciuti nell’Ordine Terziario di S. Francesco.
Corrado è un giovane dedito ai piaceri della sua posizione nobiliare feudale,
una mattina prossima all’estate, verso l’anno 1315, di buon ora esce
accompagnato dai suoi servitori, per una battuta di caccia nella campagna.
Nonostante i battitori e l’uso di cani da caccia, pare che la vegetazione
incolta sia un utile rifugio alla selvaggina, e quindi Corrado ordina ai suoi
uomini di appiccare piccoli incendi alla radura ed alle sterpaglie
prossime all’incolto.
Purtroppo un vento possente aiuta il divampare delle fiamme, che ormai
divenute incontrollabili, ardono oltre che la piccola foresta anche i campi
colti a frumento, gli armenti che vi pascolano ed alcune masserie abitate
da contadini.
Accortosi che le fiamme sono indomabili, per la scarsità di acque utili a
spegnerle e per la dimensione dell’incendio, decide di lasciare il luogo
ritirandosi entro le mura della sua casa cittadina.
Ordina prontamente ai servitori, pena la loro stessa vita, di non dir niente
del danno e della colpa relativa all’incendio.
Nel frattempo, il Visconti, che era Signore di Piacenza, venuto a
conoscenza del grave danno accaduto nelle campagne e che ha distrutto
animali e fattorie, da ordine ai suoi sgherri di arrestare colui che ne fosse
il colpevole.
Viene accusato un povero contadino sorpreso a bruciare stoppie ed
erbacce secondo la normale consuetudine agricola.
Il poveraccio non riesce ovviamente a mostrare le sue ragioni e viene
prontamente processato e condannato alla pena di morte.
Nel frattempo Corrado, venuto a conoscenza che un innocente entro
breve sarà giustiziato per colpa sua, inizia un travaglio della coscienza,
che in accordo con la moglie Eufrosina, lo porta ad ammettere la propria
colpa dinnanzi al Visconti.
Il contadino è liberato, ha la vita salva, mentre Corrado che è già per
motivi di famiglia avverso al Visconti, ghibellino, è condannato al
risarcimento dei danni causati.
Anche Corrado ha la vita salva in quanto egli è un Nobile ma ugualmente
è costretto a riparare del danno fatto e costretto dall’evento, vende ogni
suo bene per tal fine, riducendosi ormai a stato di povertà.
In questo periodo viene disconosciuto anche dalla Famiglia, oltraggiato
e deriso dal mondo feudale che fino a poco tempo prima godeva dei suoi
stessi beni, privilegi ed amicizia.
Matura intanto dentro a se una conversione estrema: la sua educazione ai
valori cristiani lo spinge ad avere una compunzione carica di dolore dei
suoi peccati, l’esempio dei poveri fraticelli della Penitenza di
S. Francesco sono uno stimolo a ricercare ormai in altro luogo la
soddisfazione della sua persona.
In intesa con la moglie Eufrosina vende quel poco che gli resta e lo dona
ai poveri, e secondo la Regola francescana esplicata con la Bolla Supra
Montem nel 1289 dal Papa Gregorio IX, relativa ai laici uomini e donne
convertiti alla penitenza del Terzo Ordine – entrata la moglie Eufrosina
nelle Clarisse – si ritira egli stesso nel piccolo eremo-hospitio dei
Penitenti di Calendasco.
Inizia qui il cammino della sua conversione che lo porterà, alla fine
dell’itinerario spirituale che attuerà per tutta la vita in modo sempre più
perfetto, alla gloria del Paradiso ed agli onori degli Altari della Chiesa
cattolica.
Nel piccolo hospitio vive assieme a pochi altri fraticelli sotto la guida
spirituale di Frate Aristide, lo stesso che qualche decennio prima era stato
chiamato a Montefalco per edificare il nuovo convento delle clarisse,
voluto dalla stessa Santa Chiara di Montefalco, Nobile dei Bennati.
Il progresso di Corrado penitente segue varie tappe, dalla iniziale fase
dello sconforto, dello scherno che egli subisce dalle genti,
all’umiliazione di chi si trova di colpo da uno stato agiato ad uno di
massima povertà e disagio, fino al progressivo suo vincere lo sconforto e
progredire nella adesione più sincera al Vangelo di Cristo.
Nell’eremo, che è anche hospitale per i pellegrini che giunti al Po
proseguono verso Roma o inversamente, per il nord Italia e la Francia,
impara ad essere umile e servizievole.
Qui infatti si unisce la preghiera e la contemplazione con la vita attiva,
con il lavoro manuale appunto compiuto nella accoglienza cordiale degli
sconosciuti e dei bisognosi in genere.
Dopo un buon numero di anni e di lodevole servizio ed essendosi sparsa
la voce del suo progresso spirituale, le genti della zona piacentina
iniziano a recarsi presso di lui in cerca di guida e consiglio.
Corrado ormai è avviato sulla via della ricerca della contemplazione più
perfetta per avvicinarsi a Dio sempre più, grazie alla lettura del Vangelo
e allo studio dei libri dei Padri della Chiesa su come raggiungere uno
stato di vita il più possibile lontano dal frastuono del mondo, quindi
decide di partire pellegrino alla volta dei luoghi santi di Roma.
In questo comportamento possiamo già infatti leggere quel richiamo
all’abbandono dei legami famigliari e materiali con il mondo che gli
appartiene e che si esprime nell’insegnamento dei Padri ai desiderosi di
vita solitaria eremitica con la applicazione della xeniteia: appunto
l’abbandono fisico della patria natia e di tutto ciò che essa rappresenta.
Corrado vestito del suo misero abito fatto di panno tinto grigio all’uso dei
penitenti, armato di sandali e di un bastone se ne parte quindi pellegrino.
Ormai ha maturato il proposito di dedicarsi interamente a Dio solo, per
questo continua il suo pellegrinare e giunge in Sicilia.
Venuto a conoscenza che i posti migliori per intraprendere il suo stile di vita
fossero in Val di Noto, qui si dirige e trova il primo albergo presso il luogo
di Palazzolo. Qui è accolto molto malamente, al punto che oltre ad essere
deriso e preso a male parole volevano anche fargli del male nella persona.
Corrado se ne parte, inseguito dai cani rabbiosi aizzati dagli abitanti di
quel posto, quasi presagio questo che ora lui è preda diversamente da
quando, giovine, era dedito alla caccia ed all’inseguire selvaggina.
Giunge nella città di Noto, ove erano molte buone e devote persone e qui
riconosciuta la sua buona e onesta vita può restare in tutta tranquillità.
Entrato in confidenza con un buon uomo, questi lo indirizza al suo primo
ritiro nel luogo detto Le Celle, vicino alla Chiesa di Santa Maria del
Crocifisso.
Qui dimorando in solitudine, inizia a lavorare il terreno affidatogli e lo
trasforma in luogo coltivato con alberi di frutto e viti.
Il suo progresso non sfugge alle genti, che iniziano a rendergli visita per
chiedere consiglio a questo uomo devoto e religioso nella Santa Chiesa
cattolica. Ma il suo proposito è quello di trovare completa solitudine,
vuole abitare nel deserto più completo.
Uscito quindi dalla città di Noto andò ad abitare in un luogo distante
pochi chilometri detto I Pizzi, ove era una valle in cui scorreva un fiume.
Sul territorio vede esservi altre grotte e spelonche che già penitenti
usavano come dimora. E qui, immerso nella natura più aspra, inizia una
vita molto dura e oltre alla vita di preghiera trasforma il luogo ove risiede
in un bellissimo giardino piantandovi aranci, alberi di noci e peri e
svariate qualità di vitigni.
L’intento era tanto più benedetto in quanto riusciva ad irrigare questo
bellissimo giardino con l’acqua del fiume che non molto lontano scorreva.
Viveva di poco pane e le genti, che si accorsero della sua vita in astinenza,
non sdegnavano di mandargli in dono spesse volte dei legumi come suo cibo.
Un giorno, mentre ritornava dalla città di Noto ove era stato a consolare
un suo devoto, passando per le botteghe dei sarti fu invitato in casa d’uno
di questi, che aveva un figlio di sette anni affetto da una forma d’ernia
inguinale che gli aveva reso i testicoli grossi come pani.
Il povero sarto che aveva molto sperato di poter chiedere aiuto a fra
Corrado, gli mostra le parti insane del bambino e questi alzando gli occhi
al cielo, facendo un segno di croce, benedisse quell’infermità.
Di là a poco che frate Corrado se ne era andato il bambino chiamò il
padre mostrandogli d’essere stato sanato: con questo miracolo molto si
sparse la voce della santità del penitente al punto che quando doveva
recarsi nella città di Noto, si calava il cappuccio fino agli occhi e
velocemente sbrigava le sue necessità.
Viveva nella sua solitudine lavorando umilmente. Un giorno il notaio di
Noto Bartoluccio Longo, che era devoto al frate per le sue virtù, gli mandò
per mezzo di un garzone due fiasconi di vino. Il malizioso garzone ne
nascose uno per se nella boscaglia e l’altro lo consegnò a Corrado, che
però, con meraviglia del giovane, gli chiese del fiascone mancante.
Questi ammise la colpa, e come gli aveva immediatamente predetto il
frate, trovò sul fiascone una serpe velenosa che scostò con un lungo
bastone, poi riportò il maltolto a Corrado che lo ammonì di non ripetere
un’altra volta un tal gesto.
Il garzone narrò poi della preveggenza di Corrado al suo padrone che lo
redarguì per la mal azione.
Un’altra volta, un diverso suo devoto andò a visitarlo. Nel ritornare alla
città, nella boscaglia fu sorpreso da un grande temporale con molti tuoni
e lampi e acqua. Il pover’uomo si riparò in una grotta e si addormentò:
Corrado che stava in orazione, vide in spirito l’uomo addormentato che
sarebbe morto colpito da un fulmine; partì allora alla volta della grotta
ove era il devoto assopito e dopo averlo redarguito, lo fece riparare nella
sua grotta e lo ammaestrò con buoni sermoni. Questi raccontò poi alle
genti del fatto in cui era incorso e di come il santo frate l’avesse salvato
ed in questo modo se ne accresceva la stima.
Un’altra volta, un garzone gli stava portando dei legumi, quando Satana
si mostrò al giovine dicendogli che Corrado era in un’altra parte di quella
valle e lo portò in un anfratto roccioso ove rimase pericolosamente in un
crepaccio. Il diavolo sotto forma di persona, sparì, e lasciò il garzone in
disgrazia: fra Corrado, che stava in preghiera nella sua grotta, vide in
spirito il giovane in pericolo che gridava aiuto e si disperava, e corso al
luogo, calandosi nel crepaccio lo liberò dal pericolo; il giovane poi,
tornato a casa raccontò il fatto al padre.
Satana tentò varie volte il beato Corrado, con pensieri di lussuria, ma
invano non riusciva nell’intento: rispondeva pienamente al voto di castità
che gli imponeva la sua professione religiosa ed anche mostrava una
grande crescita in Spirito e virtù sante.
Allora il diavolo fece venire a Corrado il desiderio di mangiare carne di
maiale. Il beato intraprese anche questa lotta con il maligno e da un suo
devoto si fece portare in dono della ‘longa’ di maiale; quando l’ebbe,
l’appese con un uncino nel mezzo della grotta e resistette per ben dieci
giorni fino a che la carne si riempì di vermi e imputridì con un puzzo
terribile; allora buttò quella carne marcia e scacciò il pensiero di gola. In
tal modo vinse Satana in virtù di Cristo.
Un altro suo devoto che un giorno venne a trovarlo presso la grotta si
sentì chiedere da fra Corrado se poteva donargli una grossa forma di
formaggio, il buon uomo tornato a casa manda il figlio, che si chiamava
Corrado, a portare il formaggio promesso al santo uomo ma la moglie
seccata ribattè al marito cosa mai se ne facesse il frate di quella grande
forma, ma il marito ugualmente mantiene la parola data.
Quando il figlio giunge dal frate con il dono, fra Corrado lo benedice con
la mano e diviso il formaggio in due, ne affida una metà al giovine perché
la riporti alla madre, dicendogli “Questa metà è di tua madre e questa è
di Gesù Cristo”. Il giovane raccontò poi dell’accaduto al padre che restò
grandemente meravigliato.
Ma Satana tornò a far battaglia di gola al beato Corrado, mettendogli la
voglia di mangiare una buona gallina grassa.
Venuta occasione, un uomo che voleva far del bene al beato ed avendolo
egli espressamente chiesto, gli portò in dono una bella gallinella grassa.
Corrado quando fu solo legò i piedi alla gallina e l’appese all’uncino
dentro la grotta e cominciò a far penitenza mentre il demonio lo tentava
con pensieri di gola; fatta questa battaglia per alcuni giorni, alfine la
gallina si riempì di vermi e come la toccava si staccavano penne
mischiate a vermi, così vinse il desiderio.
Ed ancora tentato nella gola di mangiare una cassata, si fece portare
farina di orzo e delle fave. Corrado impastò con acqua la farina e le fave
e la mise al sole ad arrostire; quando parve cotta la spezzo ed essa
puzzava forte e il beato ne fu disgustato ed ancora Satana fu sconfitto
nella tentazione.
Venuta la stagione dei primi fichi, Corrado ebbe il pensiero di mangiarne
e quindi andò presso al fico e presone uno, lo ruppe per metà e guardando
la pianta vide che ne era piena e dopo averlo annusato si spogliò nudo e
si rotolò dentro a un grosso cespuglio di ortiche e di rovi, rigirandosi
dentro fino a colare sangue.
Anche stavolta il diavolo fu battuto da questo asceta che mostrava ormai
al mondo la forza del suo abbandono totale alla Provvidenza ed alla sola
preghiera a Dio.
Quando il beato Corrado stava ancora al luogo delle Celle del Crocifisso
di Noto, il padrone del luogo tal Guglielmo di Buccheri, servitore del re
Federico II, un giorno durante la caccia fece uno sforzo particolare al che
gli uscì l’anca a tal punto che pareva uno storpio. Il re per ricompensarlo
gli donò il cortile del castello ove l’uomo fece le Celle e facendosi frate
viveva in penitenza un poco angustiato dal proprio figlio.
Quando il suo figliolo si ammalò, fra Guglielmo lo mandò per esser
sanato da Corrado; così avvenne e gli predisse anche una vita calamitosa
tanto che poi si seppe che questo giovane una volta incappò in un grande
branco di lupi e tempo dopo, fu catturato come traditore ed impiccato.
Ora la fama del beato Corrado si spargeva nella città di Noto e nelle sue
terre al punto che il vescovo di Siracusa volle andare ad incontrare questo
campione di virtù. Quando il vescovo arrivò dall’eremita alla grotta,
entrando vide che era nuda roccia e che era completamente spoglia,
senza letto né pane eccetto una grossa zucca.
E Corrado prese la benedizione del vescovo che si fermò nel giardino con
i famigliari ed i servitori per mangiare e Corrado andò alla sua cella e
subito ne tornò con quattro pagnotte calde.
A questa vista il vescovo si inginocchiò e disse “E’ più che non si dice” ma
Corrado pure inginocchiandosi, disse di essere solo un misero peccatore che
solo Dio per grazia, faceva queste cose. Ed il vescovo tornò a Siracusa
edificato e raccontando di quanto gli era capitato presso l’uomo beato.
Corrado pur nella sua solitudine, riceveva visite dovute alle voci che
correvano della sua vita virtuosa ed umile. Un giorno un suo amico venne ad
invitare Corrado perché andasse a casa sua a mangiare dei pesci che aveva
comprato e l’eremita gli disse che sarebbe andato un’altra volta perché i
pesci glieli aveva mangiati la gatta ed in effetti tornato a casa l’uomo fu
accolto dalla moglie che gli disse che il gatto si era mangiato i loro pesci, e
l’uomo credette alle parole del beato e raccontò il fatto alla consorte.
Ma Corrado aveva anche genti che lo biasimavano, così certi giovani
vollero fargli un tranello, invitandolo a mangiare da loro di venerdì del
pesce. Questi però cucinarono anziché pesce arrosto, un giovane porcello
e quando fu ben cotto, ne diedero quindi anche all’eremita.
Egli si cibò tranquillamente al che i giovani lo derisero dicendogli che
essendo venerdì egli aveva infranto il digiuno mangiando carne; ancora
seduto a mensa Corrado mostrò loro spine, squame e schiena e code dei
pesci che aveva mangiato, a tal vista questi, pentiti, domandarono perdono
al beato, che li rimproverò e quindi tornò alla sua grotta nella montagna.
Corrado fu anche consolatore, leggendo nello spirito, così che diede grande
consolazione ad un buon uomo, suo amico, vetraio, insegnandogli a
pregare per trovar conforto e consolazione in Cristo e nella Vergine Maria.
Quando Corrado stava ai Pizzoni, il demonio mise in cuore ad alcuni giovani
uomini di dare bastonate all’eremita e deridendolo chiamandolo vecchio,
iniziarono a colpirlo molto forte, tanto che lo lasciarono a terra tramortito
mentre il povero frate pregava che Dio avesse misericordia di loro.
I giovani si allontanarono un poco e restarono a guardare cosa facesse il
beato uomo, che rialzatosi tutto malandato, li richiamò a sé.
Questi pensarono che fosse una sfida e tornarono baldanzosi pronti a
riempire ancora di legnate l’asceta. Quando furono vicini Corrado
mostrò loro delle pagnotte calde e ne diede loro tante quanti erano: il
pane sembrava appena sfornato ed i giovani malvagi ne mangiarono,
dopo di che se ne andarono pensando che comunque nessuno li avesse
visti nel loro grande crimine.
Quando a Noto si seppe che il beato era stato bastonato , caso volle che
furono subito scoperti i responsabili e quindi messi in prigione.
Allorquando fu fatto il processo venne chiamato anche Corrado, i
malfattori furono portati al suo cospetto e fu chiesto se riconoscesse i
suoi aguzzini. Corrado risponde “Non mi paiono quelli”. E disse la verità
il beato Corrado “chè, quando mi batterono, erano armati ed irati, ed ora
erano attaccati e tremavano di paura”.
Corrado comunque non volle accusarli ma la giustizia fece il suo corso
ed i giovani ebbero parecchi guai finchè poi finirono morti.
Passarono tempi e Corrado decise di andare a Siracusa per confessarsi
dal vescovo. Quando fu là, tutti videro che una moltitudine infinita di
uccelli lo seguiva e stava sopra i muri cinguettando molto dolcemente.
E ancora, un giovane lo sorprese mentre era attorniato da tanti uccelli che
gli stavano in testa, nelle mani e sulle spalle cinguettando allegramente,
al chè lo raccontò alle genti e molto persone presero a devozione il beato
frate Corrado.
Era a tal punto ormai tanto amato dalle genti, che quando veniva a Noto
per ricevere la confessione e la comunione dal prete della chiesa di
S. Pietro il Nuovo, era costretto ad andarci di notte perché la gente non
disturbasse la sua buona azione.
Una volta, avendo tagliato una grande pietra della roccia nella sua cella,
non riusciva a rigirarla per cui andò a chiamare alcuni buoni giovani che
lietamente vennero a dargli aiuto. Quando furono alla nuda grotta
rocciosa e videro il macigno dissero che non sarebbero certo riusciti a
smuoverlo essendo veramente troppo grande e pesante. Corrado
benedisse con la mano il masso facendo il segno della croce e tutti
assieme levarono ed alzarono come leggerissima la roccia e la portarono
fuori della grotta.
Rimasero i giovani meravigliati del prodigio ma Corrado, entrato nella
cella, subito ne uscì con tanti pani caldi quanti erano i buoni giovani.
Meravigliati i giovani mangiarono e con grande devozione verso il santo
uomo se ne andarono al loro lavoro.
L’esempio di povertà e umiltà di Corrado attirò alla grotta un giovane
che volle farsi suo servitore e frate; istruito su tutti i lavori corporali e
spirituali il garzone divenne ricco in virtù. Ma il demonio fece entrare
nella mente del giovane il desiderio di una donna e quindi deciso a
prendersi moglie volle abbandonare il vecchio eremita.
Corrado lo mise in guardia prevedendogli alcune sciagure: predisse che
avrebbe trovato in uno stivale una serpe, patendone grande paura, poi
avrebbe rischiato la morte in una lite e per ultimo, andando per strada con
una lancia in mano, sarebbe caduto sulla stessa ferendosi gravemente. Il
giovane se ne andò vinto dal demonio, si spogliò dell’abito di frate e prese
moglie, e tutte le cose predette gli accaddero e la sua fine fu miserevole.
Vi fu un tempo in cui la carestia colpì duramente quella terra di Noto e
della Sicilia, così tanti uomini e donne e bambini, soprattutto tanti bambini,
andavano da lui a chiedere pane ed egli riceveva pane celeste ed a ciascuno
di quei piccini dava una pagnotta calda e li sfamava e tantissime genti
vennero e trovarono sempre pane caldo: egli a tutti faceva la carità di Gesù
Cristo con amore.
Fra Michele Lombardo, che visse alcuni tempi con Corrado, e che ne
scrisse anche la vita, racconta di come il santo uomo vivesse in astinenza
dai cibi e dalle bevande e nella quaresima non mangiasse pane ma solo
legumi e non bevesse vino.
Fra Corrado andava scalzo, con la tonaca aderente al suo magro fisico e
faceva vita ordinata alle cose di Dio così come conveniva a colui che
aspirava all’unione mistica con Dio Padre.
Passarono gli anni e Corrado si avvide che ormai era venuto il tempo in
cui avrebbe reso lo spirito a Dio. Confidò questo ad un suo devoto che
molto amaramente pianse alla triste notizia. Corrado predisse che alla sua
morte il popolo di Avola e di Noto si sarebbero contesi il suo corpo per
la sepoltura: solo lui, il suo amico devoto, avrebbe potuto prendere il
corpo per il rito funebre.
E venuto il tempo e il giorno che il beato Corrado doveva trapassare, egli
andò nella sua cella e si mise, come soleva stare, in orazione e incomincia
a fare orazioni a Dio umilmente in ginocchio e alzò il capo a Dio e disse:
“Onnipotente Dio, ti raccomando l’anima mia e di ogni creatura;
liberami, Signore, dalle mani del demonio, chè io non vada a vedere i
nemici, i quali si tormentano nell’inferno; o Signore, stendi la tua mano
e dammi aiuto”. E sopra di lui fu grande luce: il beato uomo rese lo
spirito a Dio.
Come Corrado fu trapassato le campane di Noto e di Avola
incominciarono a suonare fortemente a tal punto che non si riusciva a
fermarle e le genti accortisi del miracolo pensarono subito alla morte di
un uomo santo per tanto miracolo.
Gli uomini di Noto andarono alle Celle credendo di trovare fra Michele
ormai defunto, invece egli era vivo e disse che altri era colui che era
trapassato santamente.
Le genti corsero allora ai Pizzi armate di bastoni e lance. Giunti
alla grotta trovarono il beato Corrado trapassato, in ginocchio.
Ed anche le genti di Avola vennero per prendere il corpo del frate
eremita. Intanto quelli di Noto avevano fatto una cassa di legno ma
quando stavano per pigliare il beato corpo per metterlo nella cassa,
questo fremeva e tremava mormorando, e nessuno lo poteva toccare.
Allora fra Michele, l’amico del beato, l’unico cui era concesso di toccare
il corpo, si avvicinò, prese il corpo e lo mise nella cassa. Ma il corpo
nella cassa fu tanto lungo che non vi entrava. Allora fecero un’altra cassa
più lunga ma anche in questa non entrava: il corpo si allungava
miracolosamente.
I Netini temevano che gli Avolesi venissero a prendersi con la forza il
corpo del beato ed infatti arrivarono in grande turba, armati di balestre e
lance e dardi, pavesi, spade e coltelli. Allora quelli di Noto vedendo
arrivare in tal modo quelli di Avola, presero il beato corpo di Corrado e lo
portarono fuori della grotta e si incamminarono lungo la ripa della valle.
Quelli di Avola si misero al passo ad aspettare armati di tutto punto che
giungessero con il corpo i Netini per levarglielo.
Accortesi degli armati che li attendevano gli uomini di Noto misero il
corpo dell’eremita in mezzo a loro per difenderlo e si prepararono a
battaglia.
Iniziò una dura battaglia con l’uso di dardi e frecce, le due turbe si
scontrarono per un pezzo ma fu un miracolo di Dio che nessuno ebbe
male e ognuno si ritrovò con in mano la propria arma come se mai
l’avesse usata.
Quelli di Noto si ritrovarono ancora il corpo in mezzo a loro come
l’avevano prima e se ne tornarono alla loro città cantando e lodando Dio
con grande giubilo. E la cassa del beato Corrado pareva non pesasse
niente. Quando furono alla spianata del Crocifisso, i cittadini volevano
che stesse in S. Maria; come vollero fare via, il corpo fu così pesante che
non lo poterono muovere per nessuna ragione.
Allora dissero: “Andiamo alla chiesa madre”. E quando fu detta questa
parola, il corpo fu così leggero come era prima. E andarono nella chiesa
madre.
Quando furono entrati con il beato corpo di Corrado, i miracoli furono
tanti da non poterli enumerare quanti fossero, egli ne fece senza conto
d’uomo umano, ché egli sanava storpi, zoppi e orbi e muti e diverse
infermità.
Il corpo di San Corrado fu preso e ordinatamente deposto nel suo luogo,
che è benedetto per i secoli dei secoli.
Corrado ha reso lo spirito a Dio il 19 febbraio 1351.
I LUOGHI
della devozione
in Piacenza e provincia
San Corrado Confalonieri



nella foto sopra:
  1. Calendasco: eremo-hospitale, castello ove i Confalonieri sono stati per 200 anni feudatari e l'altare dedicato nella parrocchiale con la tela del 1600 e la reliquia, è Patrono del borgo sul Po da ben 400 anni
  2. Piacenza: parrocchia S. Corrado in città dedicata al Santo e in cattedrale le pitture del 1600
  3. Castel S. Giovanni: Collegiata, il dipinto di S. Lucia con a lato anche San Corrado e nell'oratorio di S. Rocco la statua del santo eremita piacentino
  4. Celleri di Carpaneto: la Casa Torre dei Confalonieri
  5. Pontedell'olio: quadro in sacrestia
  6. Cortemaggiore: quadro in sacrestia, copia di quello del Lanfranco






alcune delle opere e dei monumenti nei luoghi ove si
venera San Corrado Confalonieri

Dal bellissimo sito della Diocesi di Noto

dove si conservano le sante spoglie veneratissime del

Patrono San Corrado piacentino, eremita e pellegrino





La Diocesi di Noto

La diocesi di Noto (in latino, Dioecesis Netensis) è una sede della Chiesa cattolica suffraganea dell'arcidiocesi di Siracusa che appartiene alla regione ecclesiastica Sicilia. Costituita il 15 maggio 1844,contava 211.000 battezzati su 212.546 abitanti nel 2004.

Territorio
La diocesi di Noto, si estende per due provincie, quella di Ragusa attraverso le città di, Modica, Ispica, Scicli, Pozzallo e Siracusa attraverso Noto, Avola, Pachino, Portopalo e Rosolini. Queste costituiscono gli 8 vicariati della diocesi mentre 98 sono le parrocchie. La città più popolosa della circoscrizione non è Noto (23.473 abitanti) bensì Modica (53.857 abitanti).

Serie dei vescovi
- Giuseppe Menditto - (22 luglio 1844 - 14 novembre 1849)
- Giovanni Battista Naselli - (17 febbraio 1851 - 27 giugno 1853)
- Mario Giuseppe Mirone - (28 aprile 1853 - 17 febbraio 1864)
- Benedetto La Vecchia - (23 febbraio 1872 - 5 luglio 1875)
- Giovanni Blandini - (5 luglio 1875 - 3 gennaio 1913)
- Giuseppe Vizzini - (19 agosto 1913 - 8 dicembre 1935)
- Angelo Calabretta - (16 luglio 1936 - 27 giugno 1970)
- Salvatore Nicolosi (27 giugno 1970 - 19 giugno 1998 ritirato)
- Giuseppe Malandrino (19 giugno 1998 - 16 luglio 2007 ritirato)
- Mariano Crociata dal 16 luglio 2007


nella foto: Castrum Calendaschi e poco discosto sulla via romea
la Villa Arena ove sorgeva l'oratorio di S. Rocco
- mappa del Bolzoni del 1587 -


Una visita pastorale del 16 dicembre 1579

la antica visita alla nostra chiesa di Calendasco fu "apostolica" effettuata per conto del Vescovo mons. Giovan Battista Castelli



CALENDASCO

la chiesa parrocchiale ha sottoposti due oratori, uno dei quali posto ad Arena, 1 km prima del paese e dedicato a SAN ROCCO.


Per cura della moglie di Luigi Confalonieri, nella relazione della visita pastorale del vescovo alla chiesa parrocchiale di Calendasco, retta dal presbitero Antonio del Milio è scritto che l’Illustrissima Domina versa un obolo per la fornitura annuale dell’olio necessario per la lampada dell’altare maggiore posta accanto al Santissimo Sacramento.

Leggiamo anche che:

In predecto territorio de Calendasco” sottoposto alla chiesa parrocchiale è “oratorium nuncupatum sub vocabulum Sancti Rochi posito in loco arene” ove risiede il Signor Rizzolo ed è “in territorio diciti loci Calendaschi ed quo est profanatum et nihil habet in bonis, et non habet aliqua paramenta...”

Dalla carta deduciamo che il culto a San Rocco era esistente: santo penitente terziario, venerato principalmente contro la peste e anche assurto a protettore dei pellegrini. Infatti la località di Arena, ancor oggi esistente è sulla “strata romea” cioè la via Francigena che dirige a Calendasco ed al porto del Po luogo di transito e traghetto.

L’oratorio nel 1579 è ormai desueto e profanato, cioè non più in uso, questo significa che doveva avere una antica fondazione, ed essere abbastanza antico ed addirittura risalente alla prima divulgazione del culto in terra piacentina, come appunto fu in Sarmato e nella stessa Piacenza.

Possiamo ritenere che un tempo, cioè prima della profanazione, fosse dotato di propri arredi e paramenti per la sacra liturgia ed anche fosse adorno di pitture al Santo Rocco.

Purtroppo oggi dell’oratorio si è persa completa memoria e non è desumibile sapere ove fosse ubicato e anzi si crede certamente abbattuto nel tempo.

Certezza vuole però che esso sorgesse al ridosso della strada principale diretta al borgo sul Po: ancora oggi questa piccola frazione sorge lungo l’asse viario principale ed è segnalata già come frazione, nominata quale Arena, in mappe del tardo 1500 ed in carte notarili molto più antiche che indicano terre e possedimenti in Arena territorio di Calendasco.


Circa San Rocco e San Corrado in rapporto all’eremitorio ed ospedale per pellegrini di Calendasco presso al molino del gorgolare

Già il fatto che San Rocco sia inscritto nel Calendario e Ufficio Liturgico del Terzo Ordine Francescano - oppure Regolare (TOR) che dir si voglia - era stata per me una scoperta importante! Infatti questo santo, veneratissimo nel Piacentino, secondo la Tradizione è appena successivo nei suoi accadimenti di vita, a San Corrado, ed anzi per certi anni, la loro vita si intreccia nel piacentino: intendo quando il nostro santo Corrado già era ritirato nel romitorio di Calendasco del 'gorgolare' (appresso al mulino), con la comunità retta dal superiore frate Aristide. Anzi è logico e probabile pensare anche 'storicamente' di un loro incontro e conoscenza!

E' storicamente certo che i Terziari ospedalieri - quali in Calendasco - di cui anche s. Rocco è un 'infermiere itinerante' (così lo definiscono gli storici per il fatto che itinera da ospitio in ospitio proprio al servizio degli infermi), sono con quelli viventi nei romitori, i primi 'congregati' per una risoluzione alla Regolarità dei Terziari, e il "romitorio" di Calendasco è tra i 'fondanti'.
Non mi dilungo qui, ma già documenti del tardo 1300 identificano storicamente il "romitorio con
Superiore frate Aristide", e per ora tanto basti, (più avanti gli Studi in preparazione renderano onore e giustizia al vero con precisione di carte e documenti).


Gorgolaru, villa sutta Placentia nominata

Lo storico capace e serio si affida

ai documenti, oppure, mancando questi,

alla logica più deduttiva




GORLAGO e BORGOTARO

ASTORICO e SENZA BASE LOGICA



Scrive il Balsamo, che è fra gli studiosi netini del santo, (scrive 18 anni fa ndr), alla pag. 99 degli Atti del Convegno del 1990 che “E’ necessario ritenere che il Pugliese – la cui attendibilità ci pare fuori discussione – accingendosi a rivedere ed ampliare, sul finire del Cinquecento, il suo poema... ebbe a frugare utilmente fra le antiche carte della Chiesa Madre...”. Il Pugliese è lo storico netino che cita oltre al cognome – Confalonieri – del Santo piacentino, anche il luogo del ritiro: Gorgolaru, villa sutta Placentia nominata.

Villa sotto a Piacenza, e sappiamo che le mappe del 1500 e le odierne, nella toponomastica piacentina, tenendo a riferimento ancor oggi il fiume Po, dicono ‘sotto’ il NORD e ‘sopra’ il SUD, bastino le cartine odierne con decine di località della provincia di Piacenza così nomate e così sistemate geograficamente.

Villa sutta Placentia: luogo a nord di Piacenza, in giurisdizione di Piacenza!

Quindi NON Gorlago nel bergamasco a oltre 100 km e neanche Borgotaro, a oltre 100 km da Piacenza ed in territorio di Parma! Ipotesi inenarrabili eppure pare che ancor oggi, non ostante la pubblicazione del volume del 2006 sugli “Inediti Piacentini” circa San Corrado, ancora si propini non si sa per qual si voglia storicità, del luogo del ritiro essere anche il Borgotaro.

Per di più se si dice essere il Pugliese storicamente valido. O del Pugliese è tutto storico e valido oppure no: cioè quando cita nettamente del Confalonieri, idem nel caso del villa sutta Placentia!

O forse si ritiene valido solo quello che giova a ‘buon pro’ personale? Ma la verità storica circa il nostro amatissimo Santo Patrono non può rimanere avvilita da prese di posizione che tentano di salvare tesi ormai superate, e con elementi d’Archivio reperibilissimi da libri pubblicati in Piacenza di recente, 2005 e 2006!

Oppure per chi sà quale opportunità, o per non rimetterci la faccia, qualcheduno ritiene perseverare nella astoricità, che però, e per fortuna, è già stata criticamente vagliata e ritenuta valida così da mettere “a riposo” le sorpassate tesi! Valide forse nel 1990, non più ora, ed a ragione: carta canta!

Ripartiamo da qua, il Patrono, che veneriamo tutti indistintamente con assidua devozione, lo merita.

Fulvio A. Malvicini



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VILLA SUTTA PLACENTIA

Sutta e supra

Sutta corrisponde al nord

Supra corrisponde al sud

Mappe antiche e moderne, nomi di località e la loro localizzazione topografica sono eloquenti: un dato emergente è che l’hospitale romitorio calendaschese è situato secondo l’indicazione esatta del Pugliese del 1568.


La storiografia piacentina degli anni passati ha fatto sì che circolasse una erratissima informazione storica mal recepita anche a Noto per quel che riguarda la indicazione toponomastica e geografica relativa alla indicazione ‘sutta’ e ‘supra’.

Sarebbe bastato dare un occhio in più alle mappe del 1500 e 1600 conservate negli Archivi Statali e già pure ripetutamente pubblicate, relative a Piacenza ed al suo vasto territorio per accorgersi e quindi evitare, di avallare un grossolano errore.

Precisamente tutto nasce da questa frase del poema del Girolamo Pugliese che così pare indicare ove fosse l’eremo del ritiro di San Corrado: “... era stu locu appresso Gorgolaru, villa sutta Placentia nominata”.

Diciamo che ‘villa sutta Placentia nominata’ fà intendere in senso generale che si voglia dire ‘villa in giurisdizione di Piacenza’ od anche ‘villa in provincia di Piacenza’; col termine ‘villa’ si intende una frazione abitata, un piccolo paese.

Cominciamo col citare ciò che lo storico del francescanesimo Filippo Rotolo registra nell’importante volume “Vita Beati Corradi”: “Le uniche e scarse notizie sul Pugliese provengono dal Pirri e dal Mongitore. Da questi sappiamo che fu Sacerdote, che fu Vicario Foraneo... Il Pugliese nel suo racconto si basa eminentemente sulla Vita Beati Corradi, ma assieme a questa egli certamente si servì dell’opera del Venuto e del Rapi, e assieme a loro di qualche racconto conservato presso il popolo... Il Pugliese non porta grandi contributi alla Vita di S. Corrado. Pochissime sono le precisazioni proprie...”.Oltre ad indicarci che il Pugliese si servì di altri studi esistenti, è chiarificato che egli non porta grandi contributi sulla Vita di S. Corrado e pure le precisazioni sono scarse.

Impostiamo ora il discorso col citare la mappa disegnata dall’ingegnere piacentino Paolo Bolzoni, pubblicata tra il 1587-1588 importantissima, sulla quale già esimi studi sono stati fatti proprio perchè è di una precisione estrema sia nel campo indicativo geografico-fisico che in quello della toponomastica.

Un qualunque storico piacentino che si rispetti avrebbe dovuto conoscerla e quindi si sarebbe evitato di divulgare a Noto un errore grossolano relativo alla indicazione geografica di luoghi piacentini andando a creare un equivoco che ha fino ad oggi trovato sostenitori più o meno consapevoli - (è talmente conosciuta che di questa eccellente mappa se ne sono occupati con pubblicazioni pregevoli ottimi Professori ed Università).

Si è voluto far credere che l’indicazione geografica “sutta” fosse indicativa del ‘sud’ e quindi quella opposta “supra” indicativa del ‘nord’; difatti a chi non conosce le mappe antiche e moderne dell’area piacentina, può apparire palese prendere per buone queste indicazioni. Ma sono indicazioni sbagliate, errate senza ombra di dubbio: basta ‘leggere’ appunto le mappe del tardo ‘500 piacentino e meglio ancora, dare un’occhiata a quelle moderne per accorgerci del grossolano abbaglio.

Ebbene la storiografia recente ancora una volta sorpassa quella dei decenni scorsi, a monopolio unico, in effetti nelle mappe piacentine l’indicazione geografica di una frazione, di un paese, di un piccolo centro abitato è indicato chiaramente al rovescio di quello che si pensa: il sutta indica il nord mentre il supra indica il sud.

Le cartine geografiche sono chiare al riguardo: nella mappa del 1587 del Bolzoni, ad esempio si può vedere la località Suprarivus Subtanus posta a nord mentre il Suprarivus Supranus è posto a sud. Sempre in quella ottima mappa i molini di Calendasco chiamati appunto molendini Suprani Calendaschi sono a sud del paese: come invece può far fuorviare il nome molini soprani (di sopra) pensandoli a nord.

Ma si badi bene che non è tipico solo dell’area padana piacentina - ieri come ancora oggi – indicare località, distinte in due agglomerati, con lo stesso nome ma però con la differenziazione sopra (sud) e sotto (nord), anche le vecchie carte geografiche ad esempio dell’area di Pavia ci indicano dei paesi e delle frazioni o delle aree rurali distinte dal sotto e dal sopra come nel piacentino.

Era usuale e ancora oggi lo è: ripeto basta vedere le mappe più precise, quelle militari ma non solo, comunemente in vendita ai nostri giorni, per accorgerci che l’area padana indistintamente usava distinguere il nord con la dizione sutta – sotto ed il sud con supra – sopra e nelle edizioni moderne delle mappe vige ancora questa regola.

Guardando una mappa dei nostri giorni possiamo notare piccoli paesi o frazioni che nella toponomastica riportano la dizione ‘sotto’ e ‘sopra’ così come abbiamo imparato: ad esempio non molto lontano da Calendasco c’è il Castellazzo di sotto a nord ed il Castellazzo di sopra a sud. Possiamo notare i paesi di Campremoldo di sotto a nord e Campremoldo di sopra a sud, e questi due distinti paesi hanno ognuno la propria chiesa parrocchiale. Altre ancora sono le frazioni così identificabili nella toponomastica piacentina, indice questo che la questione del ‘Villa sutta Placentia’ che il netino Pugliese segnalava nel suo poema nel tardo 1500 è risolta: il sutta va letto quale nord ed il supra invece quale sud . Il romitorio di Calendasco è sorto sulla Via Francigena in epoca longobarda quale xenodochio per pellegrini diretti al porto sul fiume Po e in seguito è divenuto hospitale dei penitenti verso il 1200 ed è geograficamente posto a circa sette chilometri a nord della città, posizionato quindi secondo l’uso topografico e geografico ‘sutta (nord)’ di Piacenza.

In un importante lavoro sulla cartografia possiamo leggere: “La rappresentazione cartografica a partire dal Cinquecento, era andata acquistando una crescente rilevanza, in quanto strumento stesso di potere... I rilevatori cartografici erano dunque impegnati in un compito che li proiettava sul territorio”. E’ significativo che le mappe del ducato farnesiano e borbonico di Parma e Piacenza siano fondamentali per vari aspetti e minuziosamente precise: “Si tratta di documenti molto ben costruiti, numerosi e diversificati, che contribuiscono ad offrire una concreta testimonianza dell’importanza dei corsi d’acqua nell’economia del tempo...Tuttavia proprio l’accuratezza geometrica del disegno, il dettaglio di non secondari particolari, l’attenzione per la geomorfologia dei luoghi, illustrati nelle mappe d’Archivio... offrono una ulteriore prospettiva di riflessione circa l’idoneità del documento cartografico, in diverse sue forme e fonti, a supportare un intervento attento e consapevole di pianificazione territoriale”.

Proprio il dettaglio di non secondari particolari ha portato alla individuazione scientifica dell’hospitale di Calendasco in una mappa del tardo ‘500 oltre che in numerosi atti notarili.

Capitolo tratto dal libro a cura di U. Battini San Corrado Confalonieri i documenti inediti piacentini ediz. Compagnia di Sigerico in Calendasco, Calendasco (Piacenza) 2006


la tela di Calendasco e quella siciliana
abbiamo provato a 'dipingere' un cielo azzurro
per poter meglio confrontare i due dipinti
notate le piante, i tipi di cespuglio, il verde,
i volti, le mani ed i piedi, molto somiglianti


cliccate sulle immagini per ingrandirle
e poter fare un raffronto




L'abito dei penitenti

Nella bellissima pittura del Vincenzo da Pavia del 1549 San Corrado è vestito dell'abito proprio dei penitenti terziari francescani: infatti indossa il guarnello o altrimenti detto piacentino (la tonaca) ed il paludellum (il mantello), ha una corda ai fianchi e sul capo il caliendrum il berretto proprio così come già nel 1281 si legge negli Atti del beato Tomasuccio da Poppi.
A Piacenza si svolse nel 1280 una riunione grandissima dei Terziari.



DA CALENDASCO A NOTO
Araldo di San Corrado
l'amore e la devozione



I CONFALONIERI
Casata egemone
carte e atti notarili
sono una fedele

testimonianza storica


di Umberto Battini
agiografo di San Corrado



La Casata dei Confalonieri a Piacenza e nel territorio ha radici molto lontane, già nel 846 compare nominato Anduyno de Confalonieri in una carta relativa a Bobbio per il diritto dei benedettini di navigazione libera sui fiumi Po e Ticino. Piacenza in età longobarda aveva la sede di un Ducato, mentre i carolingi la resero centro d’un Comitato. Nel Registrum Magnum di Piacenza troviamo nominati i Confalonieri in tanti atti della comunità: suore nel monastero di S. Giulia di Brescia che aveva i diritti per la navigazione sul Po, il porto e traghetto posti al nord-ovest di Piacenza, tra i quali quello appunto di Calendasco, nel 1198 erano la domina Helena Confanoneria e la domina Mabilia Confanonera.




In un’altra carta del 1277 compare nominata sempre per diritti relativi al Po, Leonor Confalonieri ed in un Cartula societatis fatta a Piacenza il 17 febbraio 1200 si legge di Arduino Confanonerius che chiede per sè e per Giovanni Rogna il diritto di estrarre acqua dal Nure per mezzo di un canale, per portarla a due molini in costruzione.

Sappiamo con certezza che erano al servizio del Vescovo nei secoli XI – XIII, ed in quanto famiglia guelfa a seconda dei momenti politici di Piacenza, subirono come altre casate nobiliari momenti positivi e periodi di aspra contesa e lotta ed i Confalonieri erano “antichi capitanei episcopali che si erano inseriti nella lotta per il predominio cittadino ed avevano assunto il potere assieme ai capi della fazione nobiliare che nel 1310 aveva battuto Alberto Scotti”. A Piacenza dopo il 1220 si impone il sistema politico retto dal Podestà, che diventa arbitro tra le varie fazioni, nel 1242 troviamo in carica Manfredo Confalonieri.

E’ una Casata molto prolifica, ad esempio in carte del 1282 e 1283 troviamo citati vari componenti: Jacopo Confalonieri con i figli Alberto, Bernabò e Filippino ed ancora Bernardo figlio di Oprando Confalonieri.

Ai Confalonieri era espressamente riservato il controllo dei passi sul Po e quindi anche la relativa riscossione delle gabelle per transitare lungo l’alveo piacentino del Po per certi ben definiti tratti. Calendasco nei secoli X – XII era sottoposto alla giurisdizione del Vescovo-Conte di Pacenza e nel 1162 il Podestà che aveva messo personalmente il Barbarossa, Arnaldo detto il ‘Barbarava’, restituisce al vescovo di Piacenza Ugo poteri e diritti, tra cui quelli sopra agli abitanti del distretto e del territorio rurale nei dintorni della città; su questo territorio era l’importante strada di origine romana, Placentia-Ticinum (Piacenza-Pavia) e poco discosto dal burgi Calendaschi era il porto sul fiume ed il traghetto. Piacenza vedeva confluire sul suo territorio tre grandi vie: “La prima, la ‘via francigena’, conduceva i pellegrini che venivano dai paesi ‘franchi’ per andare a Roma. Essa sboccava sul Po, varcandolo a nord di Piacenza attraverso un passo che non era controllato dal governo comunale perchè, dall’età longobarda, si trovava in possesso del monastero di S. Giulia di Brescia. La ‘via francigena’ attraversava da ovest a est il territorio piacentino...”.


Sul porto della Via Francigena rientrante nel contado di Calendasco, abbiamo la Cartula concordie et pacti fatta tra piacentini e ferraresi per avere libero movimento sul Po e garanzia per cose e persone: “... Et Ferrariensis debe esse salvus et custoditus in persona et in habere in Placentia et in districtu Placentie, et non debet dare aliquam dationem in Placentia vel in districtu Placentie, nisi duos solidos de fune navis et unam libram piperis super rivum et unam aliam libram piperis ad Roncarolum de sterio...”, nessuna tassa quindi, ma solo una piccola parte in denaro e pepe – spezia preziosissima nel medioevo – da pagare al porto di Sopra rivo, che è a soli due chilometri da Calendasco. Una carta del 1056 parla dei beni venduti che sono in eodem loco Calendasco e che sono posti desuper strata Romea in integrum e queste terre hanno degli appezzamenti sui quali è possibile costruire delle case e fattorie, cioè sedimen, ed ancora terre arabilis atque gerbidis et buscaleis cum illorum areis insimul iuges viginti quinque”, tra l’altro queste ‘boscaglie’ poste intorno a Calendasco possono ben adattarsi all’incendio che San Corrado provocherà nel primo 1300.


La chiesa sorse sopra un monticello assieme al primo nucleo del castello, dalle carte longobarde sappiamo che l’oratorio di S. Maria riceveva dai rustici, la decima. Un diritto riservato alle chiese insigni pievane, Calendasco però aveva la particolarità di essere feudo diretto del Vescovo di Piacenza nel XI secolo e quindi per proteggere le popolazioni che qui risiedevano per lavorare le terre si costruì un recetto.

Oggi il recetto appare addossato al castello maggiore ed ancora nel 1500 nei documenti si evidenzia la distinzione tra ‘castello’ e ‘recetto’: i recetti, che sono depositi dei generi prodotti dal lavoro della terra, sorgono a protezione delle popolazioni rurali e degli ammassi di cereali, biade e vino. Nell’Estimo farnesiano alcune case sono a confine con la fossa del rezeto oppure con la piazza del rezetto, ma già nel 1461 in accordi tra il sacerdote Guglielmo De Ferrari e i Confalonieri, veniva deciso il libero passaggio sul ponte che immetteva al recetto.

Questi ‘recinti difensivi’ detti recetti hanno al loro interno abitazioni provvisorie; col tempo i recetti è provato che divengono nuclei importanti per un successivo centro abitato; il recetto di Calendasco, di proprietà vescovile nei secoli X-XII, è sorto lungo la strata romea, “percorso su cui in epoca medievale si doveva ancora rilevare il lisostrato di età romana”.

Le carte più antiche che ci parlano dei Confalonieri conservate nell’Archivio della chiesa di Calendasco datano a partire dal 1461, ma in Archivio di Stato di Piacenza se ne conservano da ben prima di quella data e per buona parte comunque inedite. Il documento fatto dal notaio nel rezeto Calendaschi il 19 ottobre 1448 ci fa intendere che esso era attaccato al castrum, compaiono i Nobili Confalonieri e nel recetto vi abitavano più persone. Una carta del 1447 ci dice che una persona che aveva dimora dentro al recetto viveva distintamente sub lege romana, il presbitero che compare in questo periodo è Guglielmo de Ferrari.

La carta del 12 gennaio 1461 è stata fatta nella Curia di Piacenza, alla presenza del Preposto Paolo Malvicini De Fontana, con i notai piacentini Antonio Gatto e Pietro De Jerondi, essa interessava il Dominus presbiter Gulielmus de Ferrariis rector ecclesiae sanctae Mariae de Calendascho Placentinae Diocesis ed anche i Nobilis vir Bernabos de Confanoneriis filio Divi Ludovici, la Nobil Donne Helena matris suae, viene pure citato Antonio Confalonieri ove si specifica che è fratello di Bernabò e Magdalena, la quale ritengo con certezza essere la stessa che ritroveremo come Abbatissa nel monastero di S. Chiara di Piacenza nei primi anni del 1400, e si cita anche il Marchese di Piacenza Malvicini De Fontana. Queste concessioni tra i Nobili e il parroco della chiesa, vanno ad interessare terre casamentate et in parte canelate poste in burgo dicti loci Calendaschi: tra l’altro comprendono un ben definito jus irrigandis ed uno jus cimitterius. Le terre sono poste vicino al castello incipiendo strata introitus dicti riceti sive roche sive castri Calendaschi, od anche hanno confine versus sera Tantum Castrum,scopriamo che quello che oggi è un semplice grande canale, qui è citato quale flumen Ranganelle vivue e flumen Ranganelle mortue, alcune coerenze sono con il rivo Macinatore, rivus macinatorius di proprietà dei Nobilis de Confanoneriis ai quali appartiene il cavo adaquatorium; quali testimoni del cambio e permuta di terreni, si citano venerabilis Dominus Jacobi de Ambrosii canonico della Chiesa maggggiore piacentina (la Cattedrale) e Antonio de Abiatici Arciprete della Pieve e Chiesa di S. Germano di Podenzano. Una stipula di enfeteusi del 1670 ha coerenze con la strata campestra mediante fossato divisorio mentre la terra è libera cioè allodiale et franca con però l’obbligo di non alienare ne vendere ab aliquo loco religioso ne militare, la carta si conclude con il segno del notaio, con valore di sigillo che attesta la pubblica fede e l’autentica dello scritto.

E’ da notare che nelle carte Calendasco ha dignità di Borgo, cioè rientrava in quel ristretto nucleo di luoghi che avevano preminenza su altri minori, tra 1200-1300 sappiamo che i più importanti borghi posti sulla Via Francigena erano Fontana Fredda, Fiorenzuola d’Arda e Calendasco. Inoltre con rogito notarile tutta l’area a nord-ovest di Piacenza prossima al Po, fu ceduta dagli Scotti al vescovo di Piacenza proprio negli anni della maturità di San Corrado.

Quali feudatari i Confalonieri stilarono per mano dei vari notai che nel tempo si susseguirono, vari atti direttamente a Calendasco in castro.


Altre notizie con i riferimenti d'Archivio di Stato nel volume curato da U. Battini
"San Corrado Confalonieri i documenti inediti piacentini" 2006 Calendasco di Piacenza

L’Abito del Terz’Ordine

di uomini e donne

della ‘penitenza’

Era comunemente in uso già con S. Francesco

per i Terziari quali San Corrado quello

detto 'guarnello' o 'piacentino'


Estraiamo i commenti e le notizie storiche da un Trattato epocale molto bello e istruttivo, un volume edito nel 1985 a Roma dalle Edizioni Analecta TOR, presso la Curia Generalizia.

Si tratta del “Trattato del Terz’Ordine o vero ‘Libro come Santo Francesco istituì et ordinò el Tertio Ordine de Frati et Sore di Penitentia et della dignità et perfectione o vero Sanctità Sua’ – di Mariano da Firenze scritto verso gli anni del 1520.

E’ un testo quindi culturalmente interessante che il cultore di francescanesimo dovrebbe avere nei propri volumi personali.

In questo breve saggio daremo in forma sintetica alcuni passi del “Trattato” circa l’abito in uso dalle origini per i Terziari laici sposati o meno e per quelli che già vivevano in piccole comunità alla stregua di quei ‘penitentes’ dell’eremo-hospitale di Calendasco di Piacenza, luogo del ritiro del nostro amatissimo Santo Eremita Corrado Confalonieri. I neretti nel testo sono nostri.

Come si debba andare vestito di panni vili

Cap.° 5°

- pag. 360

Ma quanto al vestire delle donne, dice che le sore si vestino di quello medesimo panno, cioè di quello medesimo pregio; ma concede loro che co mantelli di panno possino portare le tonache di guarnello o vero di panno piacentino bianco o nero, o vero di palutello di canapa o lino, che sia largo et sanza alcuna crespa cucito; el pregio del quale non passi dodici soldi di Ravenna. Ecco addunque per li sopra decti panni et pregii come appertamente sancto Francesco vole che li frati et sore si vestino di panni vili.

- pag. 363

Così ancora del colore, quando uno non volessi portare li panni di tanto vile colore, li possono concedere che porti li vestimenti di colore bianco o nero come si contiene nella regola non bollata, nella quale (S. Francesco) concede loro che per tonica possino havere guarnelo o vero panno piacentino bianco o nero che sia. Così portava sancto Ivo di Bretania et sancta Margherita da Cortona, cioè la tonica bianca virgata di alcune virgule di colore nero ma naturale.

Della forma del habito e come molti signori sono vestiti tale habito

Cap.° 6°

- pag. 364

Per queste pelli che qui co mantelli fa memoria, intendo el vestimento inferiore, che se vogliono portarlofoderato di pelli o aperto o intero, cioè cucito dinanti; se non è intero, non debono portarlo aperto come fanno li altri secolari, ma affibiato come si conviene alla honestà, colle maniche serrate, cioè intere.

- pag. 365

Alcuni altri come heremiti et che vivono in congregatione co tre voti solenni portano uno capuccio dinanzi disteso in sino alla cintura come di rieto, a diferentia de frati minori...

Et benchè dica sia di quello medesimo panno, niente di meno concede loro che decta tonica la possino portare di guarnello o di piacentino bianco o nero. El guarnello è panno di laccia et bambagia, et el piacentino, secondo alcuni, di lino et lana, et secondo altri di rascia. Queste tonache legieri credo sancto Francesco habbia ordinato loro come homo discreto acciò sieno più acte et spedite nel governo della famiglia.

- pag. 366

Ma quanto alla forma de mantelli, trova due forme. La prima è quella come li homini, cioè el mantello alle spalle in figura di peviale affibiato dinanzi al pecto, et maximo le vedove; ma le maritate in alcune parti lo portano aperto, sotto le combita rimesso, et in viduità rimanendo lo affibbiano o lo portano nella seconda forma.

- pag. 367

Li altri vestimenti quanto alla forma (S. Francesco) non li determina, et possonli portare come li altri del secolo, purchè sieno honeste portature aperte o intere che sieno; così le sore possono portare guarnelli et piacentini di colore bianco o nero, et cintole di coio, come portano li altri. Ecco che altro habito non determina che el mantello.

Et però quelli che non volgiono portare el mantello si può dire che non sieno del Tertio Ordine, benchè portino li panni superiori di colore bigio; perchè sancto Francesco non si cura del colore, ma solo che sia panno humile et nella forma che ha ordinato, cioè mantello senza scollatura.




il volume è disponibile presso
la Editrice Franciscanum di Roma
presso la Curia Generalizia del TOR




foto: Tela(particolare) in Cattedrale a Noto San Corrado con guarnello (tonaca) e palutello (mantello)


U. B. Piacenza

foto: Siracusa Chiesa di S. Maria dei Miracoli
tavola di SAN CORRADO di G. M. Trevisani, pittore veneto



NOTO:

IL PROCESSO

TESTIMONIALE DEL 1485

A Piacenza si conosceva del nobile in fama di santità!



Scrive p. Filippo Rotolo nella relazione tenuta nel Convegno di Noto del 1990:

Tra le testimonianze più notevoli per la storia del culto di S. Corrado, segnaliamo quella del Magnifico D. Francesco Leonfanti, Dottore in utroque e resa il 5 luglio (1485). In essa il teste ci narra che nel 1467 trovandosi a studiare a Padova e parlando con MesserGiovanni da Piacenza, anche egli studente, gli venne di ricordare tra le città principali di Sicilia anche Noto. L’interlocutore (Giovanni da Piacenza ndr) sottolineò che già havia intisuchi in quista chitati di Nothu chi esti lu corpu di unu nobili homo, lu quali fu di la mia chitati di Placentia, dichendu chi havia statu nobili homu.

Crediamo che questa sia la testimonianza più antica, anche se indiretta, sulla conoscenza di S. Corrado a Piacenza.”

In effetti questa è una prova antica che a Piacenza prima del 1500 assolutamente si sapeva di un nobile della stessa Piacenza che era morto a Noto in Sicilia e venerato quale “beato Curraldo”. Si sapeva quindi di questo nobile piacentino destinato alle glorie degli altari già a livello di "vociferare" e quindi riteniamo che se l'ambiente erudito quale è quello del Messer Giovanni di Piacenza del tardo 1400 era a conoscenza del fatto, ancor più lo erano le autorità preposte quali appunto le Curiali piacentine.

E se questo Messere di Piacenza ben conosceva del nobile morto in virtù cristiana a Noto, si avvalora il testo del Pugliese, storico netino, che infatti dice che alla morte del Santo Eremita fu mandato a ricercare chi fosse in Patria natale e si scoprì essere “di li Confalonieri di Placentia”. Ed anche frate Bernardino di Piacenza nel 1515 che deve occuparsi per Noto dell’approvazione da parte di papa Leone X del ‘Breve’ per la venerazione quale Beato è informatissimo sul santo Corrado, e inevitabilmente sempre più la città di Piacenza, sebbene non ancora pienamente coinvolta perchè si stava solo procedendo a Noto per far riconoscere a Roma la santità, viene a conoscere di questo nobile. Allora non si cominciò a conoscere del Santo solo nel 1608 grazie al canonico Campi, ma al contrario Piacenza già ‘aveva nell’aria’ ciò che riguardava questo illustre piacentino. Altri dati sono emersi, ma li proporremo in altro momento perchè sono oltre che inediti, assolutamente importanti per la questione.


NOTA al Testo

Il testo presente sull’Araldo virgolettato è a pag. 129-130 degli ‘Atti’;

il testo dei processi testimoniali sono editi in:

“Corrado Confalonieri – la figura storica, l’immagine e il culto. Atti delle giornate di studio nel 7° centenario della nascita – Noto 24,25,26 maggio 1990” editi a Noto nel 1992

Filippo Rotolo “I processi testimoniali per la canonizzazione di S. Corrado” da pagg.113 a 188


Per approfondire

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